(di Filippo Bocci) – Alberto Caviglia realizza con Olocaustico, il suo primo romanzo pubblicato da Giuntina, un’operazione di fantasia brillante, coraggiosa e vincente: raccontare la Shoah da una nuova e insolita prospettiva, lontanissima dall’ormai consolidata narrazione potente e austera.
In un distopico futuro ormai alle porte, quando scompare l’ultimo dei sopravvissuti nei lager nazisti, il tabù della tragica sacralità della Shoah viene messo in discussione senza alcun imbarazzo e si fatica a trovare interpretazioni condivise della realtà, ognuno sbilanciato sulle tendenze quasi sempre fantasiose, o peggio mistificatorie, del web.
Sarà David Piperno, l’antieroe del racconto, ebreo romano a Tel Aviv, a fabbricare, per non perdere il lavoro, un falso testimone dell’Olocausto, innescando così la corsa a un esasperato negazionismo, in una spirale amplificata a paradosso dalla vena ironica e senza freni dello scrittore.
Addirittura lo Yad Vashem, il Museo di Gerusalemme, che dalle alture del Monte Herzl sorveglia la Memoria del genocidio di sei milioni di ebrei, farà da culla a questa fake news, la cui scoperta porterà conseguenze planetarie inimmaginabili.
Se lo sfondo è chiaro e incombe, pure il respiro del racconto è capace di mettere in luce i sentimenti più belli,
l’amore innanzitutto, che sempre supera gli incidenti di passaggio e vince la naturale paura degli uomini che genera la viltà dei comportamenti.
C’è poi l’amicizia, la voglia e la forza di credere a chi si vuole bene, nonostante tutto e con tutto il mondo contro. C’è soprattutto lo sguardo affettuoso che si piega spesso sulle debolezze dei protagonisti e le trasfigura, riconoscendo loro dignità e forza, sempre attraverso l’ironia, l’arma principe di Caviglia.
Il libro riesce a farci ridere, su temi serissimi, con un intreccio surreale,
completamente campato in aria, in cui però l’impianto narrativo dello scrittore muove la fiducia del lettore, insieme complici e divertiti giudici della ridicola, cosmica bolla di finzione.
Non a caso, David è vegliato da un angelo custode del calibro di Philip Roth, il grande scrittore americano del Lamento di Portnoy, ebreo della diaspora, dall’umorismo dissacrante, anch’egli indulgente verso le fragilità umane dei suoi personaggi, sempre intento ad entrare e uscire dai suoi numerosi alter ego – fra cui il prediletto, un vero e proprio doppio, Nathan Zuckerman, – nell’impossibilità di arrivare a una verità certa. Un fantasma dal quale David troverà la maturità per congedarsi.

Il cinema è, infine, l’altro grande protagonista di questa storia. Caviglia è stato assistente alla regia di Ferzan Ozpetek, e aveva realizzato nel 2015 Pecore in erba con la strategia del falso documentario usata anche nel romanzo, un’opera che è anch’essa un modo di raccontare l’antisemitismo con ironia e che ha avuto riconoscimenti importanti come la selezione alla Mostra del Cinema di Venezia e le candidature ai David di Donatello, ai Nastri d’Argento e ai Globi D’oro.
Sarà proprio il vagheggiamento di un film di fantascienza, con relativo, ricorrente miraggio del Premio Oscar – un po’ come il Nobel per la letteratura sempre negato, e dai suoi lettori ogni anno ostinatamente assegnato, a Philip Roth – a iniziare la storia, e sarà proprio un film a chiuderla, mischiando irreversibilmente finzione e realtà ma salvando la Storia con la S maiuscola.
“Stiamo entrando in un’epoca in cui non esiste più alcuna differenza tra ciò che è vero e ciò che è inventato… l’unica cosa che non cambierà è la necessità delle persone di credere in qualcosa che le illuda di saperli distinguere”.
***
Questo articolo e tutti gli articoli pubblicati da B-hop magazine sono originali e tutelati dal diritto d’autore. Per chiedere l’autorizzazione alla pubblicazione dei contenuti su altri siti o blog, riproduzione in qualsivoglia forma o sintesi, contattare info@b-hop.it e citare l’autore con link alla fonte.