(di Filippo Bocci) – Domanda: ma quanto dovrò tribolare per mettere insieme due parole su La fatica di essere pigri di Gianfranco Marrone, Raffaello Cortina Editore? E sì, perché il paradosso, come immediatamente ci informa lo stesso autore, sta già nel titolo, “per cui i pigri lavorano moltissimo per riuscire a essere tali”. E lo ha dimostrato, ci dice sempre Marrone, il recente blocco delle attività da Coronavirus, tutti a casa costretti a poltrire: “Ci lamentiamo tantissimo di questo ozio forzato, non siamo capaci di star fermi, di non lavorare, di star distesi sul divano di casa a guardare vecchi film in tv”.
E allora “prendiamola in modo semiserio”, perché la pigrizia e i suoi interpreti più qualificati “hanno qualcosa da insegnarci”.
Pfui, direbbe Paolino Paperino, vessillifero della categoria e mio mentore indiscusso. Io che come lui a poltrire ci riesco benissimo, mi sono accorto che effettivamente la pigrizia si fonda su una raffinata architettura, perfettamente formulata nel libro.
Si parte con un’ampia introduzione dove apprendiamo che parliamo di un sentimento collettivo – e tutti invece che mi danno dell’asociale! – che spesso nasce come reazione, ribellione a un consolidato e condiviso sistema di valori che dà importanza fondamentale al suo contrario, all’essere costantemente attivi.
Poi Marrone fa un’accurata rassegna teorico-storica di questo atteggiamento/comportamento, non lontano ma distinto dall’ozio e dalla sua parente morale, l’accidia, che trova le sua basi in Agostino per poi essere ripresa dalla Scolastica e dannata da Dante Alighieri.
Ci saranno però illustri voci a favore, come quelle di Bertrand Russell o Robert Stevenson, naturalmente Oscar Wilde e Jerome K. Jerome, fino al libello Il diritto alla pigrizia dell’intellettuale francese Paul Lafargue, genero di Karl Marx e “convinto che la pigrizia al potere, per dirla così, avrebbe condotto alla felicità generale”.
E poiché, a partire da Adamo, il lavoro verrà considerato una maledizione, saranno i nobili a fare della mancanza di attività un segno esclusivo di distinzione sociale e ciò spiega perché l’Illuminismo, e ancor più la Rivoluzione Francese, abbiano le loro ragioni ‘naturali’ per inveire contro la pigrizia, anche se già precedentemente un pensatore come La Rochefoucauld era stato feroce nel condannarne mollezze e languidezze.
C’è nel libro, ovviamente, la mano dello specialista – Marrone è docente di Semiotica all’Università di Palermo – che ricostruisce l’area semantica del termine pigrizia, servendosi in primis dei dizionari, e poi di proverbi, detti, fiabe, evidenziando quattro aspetti principali.
Innanzitutto la fisicità che fa del pigro un soggetto lento, che si muove con difficoltà, è sempre stanco, – verissimo confermo! – ma anche la dimensione passionale e allora “il pigro è svogliato, non ha volontà, è indolente, neghittoso. È anche apatico, cioè privo di passioni forti” – Vangelo! –.
Poi c’è l’aspetto cognitivo, per cui “il pigro non ha sete di sapere, non è interessato all’arricchimento della conoscenza” – e su questo avrei, e forse anche Marrone ce l’ha, qualche dubbio –, e infine quello pragmatico, legato all’azione: “La pigrizia è caratterizzata dalla mancanza di attività”.
È a questo punto che l’autore ribadisce come stanno veramente le cose: “Il pigro non è uno che non fa nulla, ma qualcuno che fa tutto ciò che è necessario per non far nulla; e, più precisamente, non fa quello che gli altri si aspettano da lui, i suoi impegni, il lavoro necessario per vivere, i doveri che la società gli impone, rinnegando il suo essere sociale”.
Comincio a pensare che Marrone mi spii!
Eccoli allora, svelati in pagine di emozionante ermeneutica, i pigri per eccellenza: c’è l’Oblòmov di Gončarov, scettico verso ‘le magnifiche sorti e progressive’; e non può mancare il Bartleby di Melville, laconico e ostinato nel reiterare il suo I would prefer not to, non “una reale volontà di non fare ma soltanto una preferenza, un grado debole del volere”; e ancora il vessatissimo e già ricordato Donald Duck disneyano, eterno perdente, antieroe vittima del sistema; e infine Snoopy, il bracchetto di Charles Schulz, esempio di pigrizia riuscita, pura, perfetta.
Ed è tramite Roland Barthes che Marrone trae le conclusioni, fissando l’opportunità di individuare un tempo neutro, che si contrapponga all’implacabile antinomia/complementarietà di tempo del lavoro e tempo libero.
Infatti “l’idea di tempo libero presuppone più o meno tacitamente il tempo del lavoro: il tempo è libero perché segue a un altro tempo che libero non è”.
Occorrerà tendere necessariamente a una forma di ‘pigrizia riuscita’ che potrebbe essere “quella di intraprendere la via letteraria, di mettere in comunicazione il non far nulla alla pratica della scrittura”, dove il modello è quello proustiano, apparentemente passivo, “della memoria involontaria, del libero riflusso dei ricordi, delle sensazioni”.
Per arrivare ad ammettere che, in fondo, anche per scrivere non si debba essere pigri, anzi che la pigrizia sia lì, minacciosamente appollaiata, a minacciare la creazione letteraria.

La fatica di essere pigri di Gianfranco Marrone, saggio serio e godibilissimo con un ricco apparato bibliografico, è consigliato ai poltroni risoluti che pensano sbagliando di essere soli e pochi, e ai laboriosi illuminati da onestà intellettuale, che temo invece siano ancor meno, da leggere con la mente sgombra da pregiudizi, possibilmente sdraiati sul divano, pronti (si fa per dire) ad alimentare la conoscenza.
Post scriptum personale: ammansire ogni tanto il Direttore (la Direttrice) con un articolo perché non me ne chieda altri è la mia personale, basica strategia di pigrizia. Mai avrei immaginato che un professore di semiotica me l’avrebbe sistematizzata!
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