(di Filippo Bocci) – “Nominare in maniera corretta le cose è un modo per tentare di diminuire la sofferenza e il disordine che ci sono nel mondo”. Questa la frase suggestiva di Albert Camus, messa ad esergo al primo capitolo di Alla fonte delle parole di Andrea Marcolongo, edito da Mondadori, che è molto di più e di altro rispetto all’attento e scrupoloso lavoro di una eccellente filologa e grecista.
Come suggerisce il sottotitolo del libro, “99 etimologie che ci parlano di noi”, qui non si tratta di un manuale specialistico che faccia “accademia” o di un dizionario da consultare,
vi si sente piuttosto l’urgenza di fare i conti con il mondo, con la realtà.
Andrea Marcolongo si racconta attraverso le parole, “le mie che, dopo questa lettura, saranno per sempre nostre”, e ci apre la strada, ma poi siamo noi a dover dare un nome a ciò che ci circonda, e a noi stessi.
Siamo chiamati a una scelta forte, un’impresa, (ci permettiamo di dire nella sua coazione etimologica) quella di “smettere di essere aneddoti sfocati e ricominciare ad essere uomini e donne messi a fuoco – e a nudo”; “de-costruire una parola per ri-costruirci esseri umani”.
A ben vedere, già il punto di partenza, l’aggettivo greco étymos significa “vero”, “reale”. È la lingua con cui ci esprimiamo, dunque che ci racconta, ci svela, ma ci dà anche piena dignità umana.
“C’è bisogno di un gran coraggio, di schiettezza e di un rivoluzionario patto di lealtà verso il reale”,
dice l’autrice nell’Incipit, “quando si hanno fra le mani gli etimi… Con la loro integrità, le etimologie ci costringono a rivelarci, a capirci, a spogliarci di mille scuse e a essere, a nostra volta, etimi delle nostre vite: uomini e donne reali, autentici, fedeli”.
Marcolongo ci propone prima di tutto di ascoltare, perché le parole si sentono, e ognuna rispecchia il nostro sentire.
Siamo su un percorso intimo, talvolta ripido, dove però dare nome e valore ai vocaboli ci premia significandoci, ci “disvela” in un’opera di (ri)fondazione che si compie all’interno di noi stessi, perché
attraverso la creazione del nostro lessico personale, possiamo, all’esterno, essere riconosciuti e manifesti.
L’impianto dell’opera ci riporta sì alla fonte delle parole, ma ce ne mostra anche il movimento per estensione, ragiona su ciò che può averle apparentemente allontanate dalla loro accezione prima.
Potremo scoprire, abbattendo le nostre rigide chiusure, che nella radice del verbo migrare c’è un “originario significato di ‘scambiare’, ‘mutare’ fino ad arrivare al latino munus, e cioè ‘dono’”.
Ci stupiremo poi nell’imparare che, “etimologicamente parlando, passione e pazienza sono quasi sinonimi”, sebbene la prima abbia insito in sé lo slancio e la seconda faccia pensare alla lentezza, dal verbo greco páscho che riunisce i significati di soffrire e provare, e poi dal latino patior col participio passato passus.
E che dire ancora, se non la meraviglia di apprendere che viaggio non implica movimento ma derivando dal latino viaticum indica piuttosto ciò che è necessario al viaggio stesso: “Provviste dunque, ma anche mappe, direzioni, indicazioni. Certezze, mete, porti. Compagni, anche – fino alle steppe della Siberia ciò che conta è lo zaino che portiamo sulle spalle, anzi, dentro di noi, la valigia che non si vede”.
Scoperta, stupore, meraviglia. Andrea Marcolongo stessa – nel regalarci un libro bellissimo – dice di essersi spesso dovuta fermare, sorpresa, dopo aver interpellato, “ostinata”, le etimologie.
Questo fascinoso, ma anche rischioso, viaggio attraverso le parole può essere intrapreso dal lettore – dal verbo greco légo, che rimanda al latino legere, e significa sia raccogliere, sia scegliere, sia raccontare – senza una direzione obbligata, purché, leggendo, si sia disposti a raccontare e raccontarsi, armati solo del viaticum dell’“integrità” dell’étymos. Diversamente, sarà “ipocognizione”, e cioè la condanna a conoscere di meno.

Negli anni Sessanta del secolo scorso, racconta ancora Marcolongo, l’antropologo statunitense Robert Levy scoprì che l’alto tasso di suicidi nell’isola di Tahiti dipendeva dalla mancanza di parole che potessero esprimere il “dolore dell’anima” dei suoi abitanti, che fosse rabbia, tristezza o angoscia, dall’impossibilità di “elaborare i propri stati d’animo”.
“Ecco a cosa servono gli etimi: a non restare sopraffatti, senza parole di fronte all’immensità del sentire”.
È fondamentale allora riappropriarsi delle parole, perché “le cose non sono come le vedi, sono come le chiami”.
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