“Pellicola cristologica”. Così Vincenzo Marra ha voluto fotografare L’equilibrio, il suo ultimo film ora nelle sale, viaggio all’inferno di un prete campano nella Terra dei fuochi.
È infatti tanto grande lo zelo di don Giuseppe nel testimoniare senza condizioni il messaggio evangelico che, a tratti, rievoca la purezza di Gesù. Nominato parroco di una piccola comunità della Campania, sua terra d’origine, il giovane sacerdote, che pure da missionario ha sperimentato il dramma delle popolazioni africane, va a sbattere contro una realtà disperata, dove vige un silenzioso quanto sedimentato sistema di bilanciata convivenza tra popolazione, Stato, Chiesa e malavita. E dove, all’altare della pace comune e della realpolitik, si sacrificano le esigenze e spesso la vita dei singoli.
È impetuoso don Giuseppe, risoluto, quasi ossessionato dalla furia della sua missione. Somiglia, la sua veemenza, a quella del messo celeste inviato a Dante e Virgilio, nel canto nono dell’Inferno, per vincere la resistenza dei diavoli e aprire le porte della Città di Dite: ma fé sembiante /d’omo cui altra cura stringa e morda.
Il sacerdote proverà ad aprire le porte dei cuori, oltre che quella del campetto della parrocchia, che il capo della malavita locale ha tolto ai ragazzi per destinarlo al pascolo della sua capra. Proverà a smontare le resistenze dell’abitudine, scardinare il sistema, rompere appunto l’equilibrio. Ma lo farà con l’approccio ingenuo di un bambino che non sa dosare la forza e risponde solo ad una morale integrale e, per questo, inevitabilmente fanatica.
È un personaggio per certi versi allegorico, che non esiste, e così come è arrivato nel paese andrà via, perché la struttura sociale corrotta che si regge sulla connivenza omertosa non lo riconosce e non lo può tollerare. Il breve passaggio di Don Giuseppe, il suo velleitario intervento nel degrado ormai incallito, non sposta niente.
Il suo coraggio, alla somma del bene fatto e del male involontariamente provocato, non accende la risposta dello Stato, distratto e assente, né tanto meno scalfisce l’atteggiamento della chiesa locale volta ad ottenere poco sacrificando molto, mentre pesa come un macigno la rassegnazione di tutti, in primo luogo dei bambini.

Il racconto di Marra è, dunque, soprattutto un canovaccio provocatorio, dove la denuncia dei fatti funziona come paradigma morale. Dall’inizio alla fine, le immagini del film sono scarne, i colori, pochi e essenziali, schizzano una realtà povera e triste, e non c’è una sola scena consolatoria perché non c’è spazio per la retorica sulla miseria e sul degrado.
Tutto è reso sistematicamente dalla macchina da presa: fissa quando aspetta di fronte don Giuseppe e il suo incedere marciante, attaccata a lui quando lo insegue di spalle.
Grande prova d’attore per Mimmo Borrelli, che incarna le lacerazioni del personaggio in una postura rigida, da soldatino impacciato. Efficace e convincente anche Roberto Del Gaudio nel pragmatico e ipocrita don Antonio. Film urgente, pressante, potente.