Max Hirzel ha un sorriso da bambino e un mente da saggio. Queste sue qualità si incontrano e si fondono a metà strada, all’altezza degli occhi, dove diventano lavoro, denuncia, informazione, curiosità. Perché Max Hirzel è un fotografo che ha scelto di guardare la realtà da un punto di vista originale, con una attenzione privilegiata per il sociale e l’umano.
L’ultimo dei suoi lavori è un commovente reportage che si mette sulle tracce dei cimiteri di tutta la Sicilia sud orientale in cerca delle tombe che ospitano i corpi dei migranti morti in mare, durante il tentativo di attraversare il Mediterraneo. Abbiamo chiesto a Hirzel il senso di questi scatti e quali speranze se ne possono trarre, pur nel dolore profondo che li attraversa.
Come è nata l’idea di realizzare un reportage sulla memoria dei migranti morti e sul destino dei loro corpi?
“La prima volta che ho pensato a questo destino è stato in Mali. Lì ho incontrato un giovane migrante che mi ha parlato di una sua amica morta in un punto imprecisato del deserto, priva di un luogo in cui i genitori potessero piangerla. Anche lui era accompagnato dal pensiero angosciante di una morte anonima. Purtroppo questa suggestione si è presentata più volte negli ultimi anni, in occasione delle notizie tragiche di sbarchi sulle coste italiane. Questa estate, finalmente, si è concretizzata l’occasione di andare in Sicilia e di mettermi alla ricerca dei corpi dei morti in mare. Ho cominciato a raccogliere informazioni e ho scoperto che si trovavano sparsi in moltissimi cimiteri della Sicilia, alcuni molto piccoli e molto lontani dalla costa e ho deciso che il mio sarebbe stato un reportage sulla memoria, ma anche sulla necessità di restituire una dignità a questi corpi.”
Quali sono stati gli incontri più significativi di questo viaggio?
“Durante il lavoro ho incontrato persone vive e persone che non ci sono più. Tra i vivi ricordo Angelo Milazzo, un funzionario della Procura di Siracusa che ha preso a cuore l’identificazione dei corpi dei migranti di un naufragio avvenuto nel 2014 e di cui è riuscito a identificare tutte le vittime, eccetto due. Lo ha fatto fuori dagli orari di lavoro, aprendo una pagina Facebook per contattare i familiari, visionando filmati e foto di cellulari e computer portatili appartenuti alle vittime. Un lavoro quasi missionario che potrà dirsi concluso solo nel marzo del 2016 quando gli esami del DNA potranno confermare l’identità degli ultimi due corpi, che i familiari non si sono sentiti sicuri nel riconoscere. Ricordo anche il padre di un giovane sepolto a Siracusa accanto alla tomba di un migrante del Gambia. Quest’uomo, che preferisce rimanere anonimo, ha voluto donare una lapide uguale a quella predisposta per il figlio. Ho trovato in generale profonda pietà negli addetti ai cimiteri e nei necrofori. In un cimitero dell’agrigentino ho saputo anche di donne piangenti sulle sepolture dei migranti secondo l’uso delle prefiche, in una forma di partecipazione collettiva al lutto di persone per loro sconosciute.”

Ci sono state anche storie di tragedie di cui sei venuto a conoscenza
“Forse l’episodio più doloroso è quello della barca colata a picco a causa della nascita di un bambino a bordo. Praticamente i passeggeri si sono spostati tutti su un lato dell’imbarcazione per vedere il nuovo nato, ma così facendo hanno sbilanciato l’assetto di navigazione. Incredibile anche la tragedia di Sampieri, dove 13 migranti hanno perso la vita a pochissimi metri dalla riva e uno di loro, che era giunto salvo sulla spiaggia, è morto perché investito da un’automobile non appena ha raggiunto la strada statale che costeggia la spiaggia. Ma anche gli oggetti che girano attorno a queste morti parlano molto. Penso ai container che accolgono i corpi al porto, o a quello che rimane a testimoniare la vita delle persone: i tasbeeh (i rosari usati dai musulmani), le fotografie sul passaporto, i selfie scattati durante il viaggio, i bracciali, i cartellini identificativi.”
C’è qualche segnale di speranza che possiamo raccogliere da questo lavoro, certamente difficile da sostenere emotivamente?
“Penso che il senso ultimo di questo reportage sia una sorta di pendolo fra la memoria e la documentazione. Il lavoro è certamente un omaggio ai defunti, ma ancora di più vorrei che servisse ai vivi, per quando qualcuno, in un futuro prossimo, ci chiederà conto di queste morti. Perché sono tutte morti evitabili e vanno avanti da almeno venti anni, senza che nessuno pensi a un modo realmente efficace per evitarle. Il mio è un tentativo di spaccare il fronte nel dibattito fra favorevoli o contrari alle migrazioni, perché di fronte alla morte non c’è discussione”.
È un lavoro mesto e carico di dolore, ma prezioso. E anche questo è fuori discussione.
Il reportage di Max Hirzel è visionabile presso il sito dell’Agenzia fotografica Haytham.