di Benedetta Bernardi – “Le mie vite daccapo” (Cisu, 2020) racconta la storia di Suzana B., donna della diaspora rom kosovara. Il libro, frutto della collaborazione tra la protagonista e Milli Ruggiero, che le ha dato voce, nasce da una profonda amicizia e da un progetto di ricerca antropologica sul popolo rom.
La narrazione segue un lungo viaggio che parte da Vučitrn, in Kosovo, nei primi anni Sessanta e si conclude a Lione, in Francia, dove Suzana e la sua famiglia tuttora vivono. L’immagine suggerita dal titolo è una frase che ricorre spesso nel suo racconto e sta ad indicare le ripartenze, le riorganizzazioni della vita personale e familiare che Suzana si è trovata ad affrontare in seguito ai diversi spostamenti da un luogo ad un altro: nelle sue parole,
“altra vita, altro tutto e lì un’altra vita daccapo”, si colgono la fatica ma anche il coraggio e la determinazione di chi ha saputo sempre reagire di fronte al nuovo e all’imprevisto.
Suzana nasce a Vučitrn, in Kosovo, da una famiglia rom khorakhanè (musulmana), molto numerosa:
“ero la decima figlia, siamo cresciuti in una casa povera, una sola camera, lì (mamma) ha fatto nascere e cresciuto tutti i quattordici bambini”.
Ed è in questa unica camera che la famiglia condivide la vita, le poche cose, i pasti frugali, “ma ricchi di sapore”, il čaj e il caffè turco; la mancanza di agio viene colmata dalla profusione di tenerezza verso i bambini: “la dolcezza ce la davano mamma e papà con le loro parole, la nostra casa era piena di amore per tutti”.
Suzana è riconoscente nei confronti dei
genitori che hanno insegnato ai figli “ad aiutare il prossimo: se hai un pane dividi tra tutti, non nascondere il pane (…) no, devi dare con il sorriso sempre, non devi rovinare la purezza del tuo cuore e sempre devi dire ce l’ho!”.
Gli insegnamenti ricevuti nell’ambito familiare rimarranno per lei l’unico punto di riferimento, perché, racconta, “io non sono potuta andare a scuola” e sentirà l’istruzione mancata come un rimpianto.
Un’infanzia spensierata quella di Suzana, segnata presto tuttavia da un evento traumatico e doloroso che la fa entrare di colpo nell’età adulta: “Quando avevo tredici anni”, ricorda, “ho cominciato a riempirmi di problemi”.
Un buco nero, ma Suzana riesce a trovare la forza per affermare la sua identità e valore: rifiuta un matrimonio combinato, dimostrando con forza di non rispettare le regole delle sue “genti” per perseguire ciò che le sembra giusto. Suzana crede invece nell’amore vero, lo incontra e si sposa. Kosovo Polje è la cittadina dove si trasferisce per andare a vivere, come da tradizione kosovara, nella casa del marito assieme alla sua famiglia.
Nella cultura rom è la suocera che addestra le nuore a diventare buone mogli e madri e può accadere, come racconta Suzana a proposito della sua esperienza, che la padrona di casa eserciti il suo potere sulle giovani donne in modo alquanto autoritario e severo: “Mia suocera a me mi comandava con il dito! Non avevo ancora finito di lavare i piatti che già mi ordinava di fare un’altra cosa (…). Ho cresciuto i sei figli di lei. La mattina dovevo alzarmi presto per pulire la stufa (…), poi dovevo fare la colazione a tutti e poi i lavori fino a pranzo, dopo dovevo lavare i bambini e metterli a letto e lei, senza aver fatto niente, andava a riposare con loro”.
Con il crescere delle tensioni nella regione kosovara, Suzana e famiglia decidono di lasciare la loro terra per Zagabria, dove sperano di trovare pace e stabilità. “A Zagabria altra vita, altri figli, (…) a Zagabria anche…io ho iniziato a fare il lavoro che mia mamma aveva passato a me. (…) In romanes chi fa questo lavoro la chiamano te po mojive, che vuol dire quella che aiuta”. Una sorta di guaritrice che cura con le erbe.
Ed è anche grazie al lavoro a cui Suzana si dedica con tutta se stessa che la famiglia riesce a vivere in un certo agio, ma lo scatenarsi dei conflitti nei territori della ex-Jugoslavia li costringe a fuggire di nuovo e ad arrivare in Italia. Trieste poi Bologna, dove alcuni fratelli di Suzana vivevano in un kamp nomadi.
I primi tempi in Italia sono molto duri, tutta la famiglia attraversa un periodo di grande indigenza, Suzana incomincia a chiedere la limosína (n.d.a l’elemosina) al semaforo per comprare una roulotte.
“Io non conoscevo la roulotte” racconta, smontando uno degli stereotipi più diffusi sulla comunità
rom. “In Italia ho imparato cos’è una roulotte e a vivere in un kamp” ma anche “ho imparato cosa è sentirsi libera, non una persona che valeva poco”.
C’è un incontro, infatti, che cambia radicalmente la vita di Suzana: è la barista del locale in cui lei andava a prendere il caffè ogni mattina, prima di fermarsi al semaforo a chiedere l’elemosina. “Lei le ha preso un dolore, vedeva che facevo l’elemosina davvero per mangiare”: è grazie all’amicizia che si stringe tra le due donne che Suzana riesce a trovare un lavoro come addetta alle pulizie in un importante ospedale di Bologna. E non solo. Negli anni successivi, riuscirà ad intessere una fitta rete di alleanze con altre donne che la aiuteranno a capire il suo valore e sarà al centro di uno scambio proficuo di aiuti dati e ricevuti, finché un altro evento problematico la porterà, dopo lungo tempo, a lasciare l’Italia e a trovare rifugio in Francia.
A Lione Suzana e famiglia arrivano in fuga; all’inizio si trova a disagio, enormi sono le difficoltà, ma anche qui, grazie alla sua forza d’animo, fiducia e tenacia, riesce a ottenere l’asilo politico e a offrire alla famiglia una vita stabile e dignitosa. È questo anche il tempo di una perdita dolorosa, quella dell’amata nipote Rabija, a cui il libro è dedicato.
A fare da contrappeso a questa sofferenza intima c’è però la fede religiosa di Suzana, capace di illuminarla e darle forza: “Lui davvero nelle crisi aiuta, non ha aiutato abbastanza me?
Io sono contenta, ha aiutato i miei fratelli, i loro figli e i miei… come si fa a non essere contenti? Io sì, tanto, anche se ho dovuto cominciare tante volte le mie vite daccapo”.
foto di copertina: Kaida, di Michele Gurrieri