(di Filippo Bocci) – Un preside asserragliato nella sua scuola in cui è stato prima studente e poi per trent’anni insegnante, armato di fucile, con due ostaggi imprevisti a ricomporre di fatto la triade scolastica della sua vita: “Non volevo che rimanessero qui con me, ho fatto uscire tutti prima di incatenare le porte, ma la professoressa e l’alunno erano nel bagno a fare i porci comodi loro”.
Un commissario all’esterno, che tratta, minaccia e rabbonisce per farlo uscire. Ecco in un’immagine il plot narrativo dell’ultimo romanzo di Marco Lodoli Il preside, edito da Einaudi.
Parliamo di immagine perché si tratta di un grande affresco onirico, un lungo visionario monologo del protagonista proteso tra passato e presente, pagine intense dove
Lodoli ci parla di morte e di vita e della ricerca del suo senso attraverso i suoi dolori e le sue gioie.
È questo, infatti, l’ultimo giorno di vita del preside, un fluire di ricordi che presto sveleranno cosa la scuola ha significato per lui, sia come edificio spazio-temporale di cui conosce ogni angolo, sia come istituzione con cui non è mai stato veramente in sintonia: “Un preside di una scuola periferica che prima insegnava lettere, laureato in greco latino e ragnatele, è come dare al cieco Omero il volante di un pullman che deve correre veloce sull’autostrada del Sole, questo pensano di me e probabilmente hanno ragione”.
Pure, nella scuola il preside ha messo tutto sé stesso, il suo anticonformismo, – “avrei voluto tanto spettinare il tempo” – il rifiuto delle regole, dei programmi, dei voti, ma soprattutto il suo invito costante e pressante ad allievi e studenti ad imparare, fino ad essere modellati dalla conoscenza: “E volevo imparare ancora. In ognuno c’è qualcosa di incompiuto che vorrebbe compiersi, un pezzo di creta che vorrebbe diventare un vaso perfetto e cerca mani e dita sapienti”.
La libertà del sogno consente al preside di condensare il proprio vissuto, di raccontarci di Carola che lo ha abbandonato più di vent’anni prima, prigioniera dell’amore come una tigre del Bengala vista in gabbia allo zoo, o del suo amico Eugenio, pittore di vocazione e insegnante di ripiego, e di un cinghiale ferito e arrendevole che una volta hanno incontrato in una battuta di caccia, e che torna, icona fatale, a comparire in quest’ultimo giorno.
Finché il preside arriva nella vecchia casa di un tempo a far visita alla madre morta che sta facendo un solitario, a chiedere luce a lei come fosse una cartomante, per cercare di illuminare il senso della vita.
Ma la donna può solo suggerire, non può dare risposte, non può aprire spazi futuri: “Se si riuscisse a vedere le cose, metterle in colonna come queste carte, una dopo l’altra, allora si potrebbe anche venirne a capo, almeno fino a quando regge il filo che le tiene, perché il filo c’è, ma quello non si vede”.
E poi c’è il commissario, il mediatore, solo apparentemente un poliziotto, a cui il preside, che etimologicamente non può più “sedere avanti”, etimologicamente “si affida”, non a caso forse sedendo dietro insieme a lui in macchina, non potendo fare altrimenti.
Tuttavia il commissario – “è il mio commissario, io solo posso vederlo” – dovrà concedergli un ultimo “attimo”, da non sprecare, in cui poter mettere letteralmente a nudo il significato dell’esistenza.
E infine cammineremo nella città, una Roma conosciuta eppure fantastica, tra case e strade, assisteremo ad incontri surreali eppure densi di significato con personaggi diversi, mentre la descrizione, minuziosa ma carica di pathos, dei tic e delle imperfezioni della gente, tinge tutto di una tenera, tenue malinconia.
Ogni cosa, o luogo, o persona di questa storia dovrà essere necessariamente raccontata, e con ciò rivissuta di nuovo, per poter essere lasciata andare.
In fondo chi si è stati nella vita non fa differenza se non per noi.
È il bagaglio del nostro viaggio, ci ha portati dentro, ma ora lo dobbiamo svuotare. Anche il sapere imprigiona: “Parli sempre troppo difficile, figlio mio, è il difetto di tutti voi che avete studiato tanto, non siete capaci di dire le cose così come sono, storte, belle, strane, semplici”.
È solo dunque cancellando noi stessi, spogliandoci del tutto, che possiamo compiere il viaggio finale, liberi, finalmente leggeri. Ogni comportamento, ogni azione è il disperato tentativo di rimuovere sé stessi: “… perché in fondo è tutta la stessa cosa… è la stessa identica cosa, è la speranza di uscire dalla propria monotona ossessiva inesorabile presenza, scansare l’identità, cancellare il proprio nome, negarsi”.
Il preside ricapitola la vita (e la morte) in un grande sogno, un atto unico con un solo mattatore, dove Lodoli
declina con delicatezza anche l’amore, sempre uguale e sempre diverso.
Lo scrittore è bravo a rappresentare e far risplendere con un solo tratto emozioni e sentimenti: “Una ragazza sta appoggiata al muro e davanti a lei un ragazzo parla veloce, agita le mani per spiegare qualcosa, poi tace, e lei sorride e si tocca i capelli”.
La sua scrittura è incisiva, incalzante, sempre pronta a rilanciare: “… mi sento così imperfetta, così stupida, e si alzava dal letto, come se il pezzo mancante potesse essere proprio lì, in un angolo della stanza buia, oltre lo specchio del bagno, sotto la luce fioca del lampione della strada”.
Così Marco Lodoli finisce per raccontare la sostanza della vita, i dolori e le fragilità ma anche le gioie e i desideri, e la sua penna è piena di bellezza e di speranza, e urla l’urgenza di compassione, di quell’abbraccio di cui tutti, come il nostro preside, abbiamo bisogno.
Questo romanzo è il viaggio che non possiamo rimandare, scritto da un grande poeta.
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