(di Marie Noelle Urech) – Quando incontro alcuni amici, ci abbracciamo esplodendo in una risata gioiosa. Non c’è scambio di parole, ma un contatto fisico e qualcosa di potente che ci unisce nella risata, come una sorte di riconoscimento a un livello sottile e spirituale che sfocia nella gioia dell’incontro.
Mi accorsi poi che questa modalità della risata era una caratteristica di molti monaci tibetani.
Anni fa, quando invitai il Lama Gheshe Ciampa Ghiatso ad un convegno sulla morte organizzato dalla nostra associazione Viriditas, il suo intervento fu un momento incredibile intervallato da tante risate.
Le risate non erano di scherno verso la morte o verso le persone: creavano invece uno stato emotivo di comunanza e di apertura, favorendo un atteggiamento positivo e aperto su come l’essere umano può affrontare eventi difficili quale la morte, la malattia o la sofferenza.
In Occidente siamo molto attaccati alla sofferenza, un eredità della religione cattolica e del nostro modello culturale.
Inoltre i media sottolineano di continuo la separazione, il pessimismo e il lato più oscuro dell’uomo. Siamo martellati da informazioni negative che ci ricordano che viviamo in un mondo ostile e violento, senza offrirci la possibilità di conoscere la faccia nascosta della luna…e la risata!
Quando ridiamo, non è bello se la nostra sofferenza cessa per un po’?
Quando accogliamo l’altro con la risata, non è forse un segno tangibile dell’apertura del cuore?
La risata è legata ad un intenso, profondo desiderio di benessere e di felicità, di comunanza con gli altri.
Ridere da soli è già un ottimo sintomo di benessere,
è la capacità di non prendersi troppo sul serio e di osservare con il giusto distacco l’avvicendarsi delle situazioni.
Ridere insieme con un’altra persona potenzia il legame che ci unisce a lei,
è uno scambio vitale che fa stare bene il corpo e l’anima.
Ridere insieme ad una comunità di persone può rivelarsi un contagio molto benefico, più di qualsiasi discorso.
Ecco, ad esempio, la storia dei tre lama che ridono:
Tre monaci non facevano altro che ridere: entravano in un villaggio, si mettevano in mezzo alla piazza, e iniziavano a ridere.
Piano piano altre persone venivano contagiate da quella risata, finché si formava una piccola folla, e il semplice guardare quelle persone fece scoppiare a ridere tutti i presenti.
Alla fine tutti gli abitanti venivano coinvolti dalla risata collettiva. A quel punto i tre monaci si spostavano in un altro villaggio.
La risata era la loro unica predica, il solo messaggio.
Non insegnavano nulla, nel senso letterale del termine: si limitavano a creare quella situazione.
Erano amati e rispettati in tutta la Cina: nessuno aveva mai fatto sermoni simili. Essi comunicavano che la vita dovrebbe essere solo e unicamente una risata.
E non ridevano di qualcosa in particolare: si limitavano a ridere, come se avessero scoperto lo “scherzo cosmico”.
Con il tempo invecchiarono e uno di loro morì. Prima di morire aveva detto ai suoi amici: “Ho riso tanto nella mia vita, che nessuna impurità si è accumulata vicino a me. Non ho raccolto polvere: la risata è sempre giovane e fresca. Per cui, non mi lavate e non cambiatemi le vesti”.
Per rispetto, dunque, non gli cambiarono l’abito. E quando il corpo fu posto sulla pira, all’improvviso si accorsero che nei vestiti aveva nascosto dei fuochi artificiali. Pim, pum, pam!
L’intero villaggio si mise a ridere, e i due monaci rimasti dissero: “Furfante! Ti sei fatto l’ultima risata!”