In Sicilia, che per clima e posizione riesce a produrre ancora i tesori di un tempo, è partita la “rivoluzione dei grani antichi“, con sempre più agricoltori che passano al biologico e riscoprono le sementi locali. Ad oggi sono circa 500 gli ettari di terra riconvertiti ma secondo stime ufficiose in futuro potrebbero essere almeno 3.000. Farro, Timilia (detto anche Tumminia), Russello, Saragolla, Maiorca, Senatore Cappelli, sono questi i nomi. Li descrive a b-hop, dall’alto della sua esperienza e cultura, Arturo Genduso, studioso ed agronomo, impegnato come produttore nell’agricoltura biodinamica, perseguendo il metodo ante 1800. E’ anche il mentore di alcuni nomi di spicco internazionale, tra cui chef che impiegano grani antichi per una cucina più sana e naturale.
Quando si parla di “grani antichi” non si parla solo di specie di semenze diverse ma di un concetto che ci proietta indietro nel tempo alla riscoperta di alimenti nobili e puri, per un recupero di qualità alimentare e salvaguardia della salute. La “buona alimentazione” parte dal presupposto che la salute nasce nel piatto. Per cui sempre più consumatori scelgono di orientarsi verso un recupero della tradizione alimentare; le crescenti allergie, intolleranze e malattie come la celiachia, spingono a documentarsi in rete e abbandonare il consumo di massa, affidato a prodotti sempre più raffinati e realizzati su larga scala. Le materie prime sono spesso rovinate da processi distratti, come la pulizia e la raffinazione.

Ma cosa sono precisamente? “I grani antichi (landraces) sono identificabili con le produzioni antecedenti lo sviluppo industriale – spiega Genduso, che è anche figlio di Pietro, il celebre entomologo che salvò l’ape nera sicula -. Durante lo sviluppo industriale, in Italia i semi sono passati dalle mani dei contadini a quelle dei latifondisti. Prima dell’era industriale il seme ed il lavoro erano competenza del colono, che consegnava i 2/3 del prodotto al proprietario del podere e tratteneva 1/3 del prodotto come sostentamento, per ricavarne il seme dell’anno successivo. Il lavoro inoltre consisteva nell’apporto fisico e tecnico, come la scelta dell’epoca di semina, le concimazioni, le lavorazioni, la selezione manuale del seme. Quest’ultima era necessaria per l’incremento del potere nutritivo dei cereali e per mantenere una certa costanza nelle produzioni; non era richiesta alcuna qualità tecnologica ed agronomica delle spighe, poiché tutte le lavorazioni erano manuali”.
Con l’avvento dell’era industriale la necessità di un seme omogeneo da adattare a grandi produzioni diventa prioritaria e perciò si arriva ai grani moderni più produttivi e meno complessi da coltivare. “Ecco che il grano pieno di spiritualità e di speranza, la cui crescita è legata alla terra, alla natura e all’universo intero diventa esclusivamente fonte di reddito – sottolinea -: inizia l’era della perdita della biodiversità agricola”.
In controtendenza però, il sovietico Vavilof e De Cillis, a Caltagirone, convinti dell’importanza del mantenimento di tale biodiversità per il futuro della terra, iniziano a raccogliere nei primi del ‘900 le antiche varietà di cereali, conservandole proprio con quei nomi antichi che oggi tanto ricorrono.
De Cillis decide di conservare le landraces ed iniziare un lavoro di miglioramento legato ai parametri qualitativi del suo tempo per avere seme in purezza e aumento della produttività. In “Frumenti Siciliani” (Maimone editore, 2004) si riporta il commento di De Cillis, sull’impurità delle varietà siciliane, come di una caratteristica delle landraces diffusa in tante varietà: “nella stessa partita di Russello e Timilia era possibile trovare diverse altezze di spighe, diverse dimensioni di spiga, diverse caratteristiche di seme”.

Per intendersi, tracciare oggi una maschera di Dna dei grani antichi sarebbe assurdo, infatti, ogni spiga ha un corredo genetico diverso: proprio l’opposto rispetto alle tendenze di oggi (vedi OGM).
“All’impurità dei semi del ‘40 in Sicilia si aggiunge che, in alcune zone territorialmente più complicate, si continuavano ad utilizzare tecniche agricole antiche e pochissima meccanizzazione – spiega ancora Genduso -, ispirandosi agli insegnamenti di Empedocle da Agrigento. Dell’esperienza delle scuole dell’agricoltura siciliana resta molto poco in quanto molti oggetti e libri hanno alimentato i roghi dell’inquisizione dal 1500 al 1700. Si sa invece che queste scuole, che si erano culturalmente ingigantite, nascevano da Empedocle, contaminato da Pitagora e dalla magia mediorientale, arrivata con la dominazione araba; astronomi, medici e scienziati ritrovavano in Sicilia parte della loro cultura. Si intuisce quale ricchezza culturale confluiva non solo nei semi antichi, ma anche nelle tecniche e nella considerazione del rapporto suolo – cosmo, permettendo il passaggio dal povero farro ai nobili frumenti, che riuscivano a curare e nutrire il popolo siciliano”.
Oggi in Sicilia sono conservate 52 landraces e il lavoro di recupero di queste varietà è iniziato.
“Sono convinto che potrebbe dare risultati molto interessanti, soprattutto perché terrà conto delle conoscenze e tecniche colturali del passato con rispetto e delicatezza”, conclude l’esperto.
Se i consumatori eserciteranno la libertà di scelta dei prodotti con consapevolezza si potrà dare uno stop alla presenza a volte invasiva e dannosa delle multinazionali nel campo alimentare, per riscoprire il piacere di alimenti sani e salubri.
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