di Walter Falgio – Nel Giorno della memoria che si celebra oggi, 27 gennaio, lo storico Claudio Vercelli, autore di “Triangoli viola” (Carocci), riflette sulla vicenda di una minoranza perseguitata e deportata dal regime nazista. Ascoltare oggi la storia dei Testimoni di Geova nei lager è anche un atto civile contro l’omologazione e il pregiudizio, “perché una società è tanto più pluralista quanto più raccoglie discorsi che non sono facilmente declinabili”. Aprirsi a linguaggi non prevalenti e all’alterità, senza la pretesa di reciprocità, è in fondo un esercizio per meglio osservare il presente, “la terra più problematica e oscura su cui ci si deve orientare”.
Nell’ambito della persecuzione delle minoranze da parte del regime nazista si inquadra il caso dei “triangoli viola”, ovvero il simbolo distintivo che nei lager veniva attribuito ai testimoni di Geova. Come definire il fenomeno?
Le discriminazioni e le persecuzioni si iscrivono in una linea di indirizzo precisa del nazionalsocialismo: quella di alimentare il conflitto tra maggioranza e minoranze, l’una e le altre definite in termini razziali. Ciò avrebbe permesso di riorganizzare la società tedesca secondo gli obiettivi delle classi dirigenti del Terzo Reich. Nel caso dei testimoni di Geova però non si trattava specificamente di persecuzioni di natura razzista, come invece con gli ebrei, ma della identificazione di
un gruppo di ariani che non si comportava secondo quelle che erano le regole conformiste vigenti all’interno del regime.
Lei si sofferma sulla sofferta articolazione della testimonianza e dell’assunzione della consapevolezza della violenza subita che prefigura, da parte dei testimoni di Geova, un rapporto di cesura con il passato. Quali sono i fattori all’origine di questo processo?
È necessario prendere le mosse dalla specificità identitaria dei testimoni di Geova e dalla loro difficoltà di narrazione autobiografica. Altri gruppi, tra i quali non sono compresi i Sinti e i Rom, ma per esempio gli ebrei o i “politici”, si sono raccontati perché avevano gli strumenti e la disposizione d’animo per farlo. Per i geoviti la vicenda delle persecuzioni e della deportazione naziste si articola invece solo all’interno delle dinamiche di gruppo, per cui comunicare il lascito della loro esperienza al di fuori di esso è stato molto difficile. Questo è un problema enorme e irrisolto, che appella la capacità di ascolto di coloro che si impongono di affrontare la complessità e la stratificazione delle violenze naziste.

La resistenza degli studenti biblici è stata molto salda, al punto tale che, per spezzarne la forza psicologica, oltre alle torture sui presunti colpevoli, la Gestapo fu costretta a esercitare ripercussioni violente anche sui congiunti. Perché Hitler temeva così tanto questa minoranza religiosa?
Perché per il regime la persistenza di questo gruppo non omologabile rappresentava una pericolosa forma di opposizione.
Il nazionalsocialismo, così come i fascismi europei, non si poneva come obiettivo alcuna forma di eguaglianza, bensì una uniformità di condotte e di pensieri.
I testimoni di Geova minacciavano questa unitarietà, pur non avendo la capacità di metterla in discussione perché, su 70 milioni di tedeschi, solo 25 mila complessivamente aderivano alla denominazione.
Come è stata elaborata la vicenda dei triangoli viola a livello sociale nel secondo dopoguerra? Quanto ha pesato il pregiudizio, determinato spesso da fattori di contrapposizione ideologico-religiosa?
Effettivamente si è verificata una rimozione:
questa storia non è stata recepita ma elusa, omessa e rifiutata.
Il problema all’origine di questo processo non risiede certo in colui che è rifiutato ma in coloro che rifiutano. Tuttavia è doveroso comprendere e integrare la vicenda dei triangoli viola e la loro differenza all’interno della nostra narrazione. Nella storia bisogna capire anche i linguaggi altrui; tanto più una vicenda come quella dei testimoni di Geova perseguitati, che appartiene a pieno titolo al tema più ampio e profondo delle molteplici resistenze morali, spirituali e civili del Novecento.
Esistono strumenti per la divulgazione di questa storia anche a scopo didattico?
Non esattamente perché nel raccontare la storia dei testimoni di Geova si incontrano oggettive difficoltà, in relazione ai meccanismi di rifiuto che entrano in gioco quando si parla di essi in un contesto didattico, e a causa della non semplice comunicazione con la denominazione e con le congregazioni. Tuttavia è necessario superare questi vincoli poiché
una società è tanto più pluralista quanto più raccoglie discorsi che non sono facilmente declinabili con il linguaggio abituale, di senso comune.
Ciò è parte della radice del discorso democratico in quanto tale. Afferma inoltre la consapevolezza che la storia non si racconta con la pretesa della reciprocità, quasi ci fossero delle par condicio.
I dibattiti sul ruolo della memoria nel confronto pubblico sono cresciuti enormemente. Un uso smodato della memoria ripropone la necessità di una trasmissione del passato nel rispetto della verità storica. Qual è la sua opinione in proposito?
La memoria è un fatto politico, non riguarda il passato ma il presente. Qualsiasi memoria attiva funziona se si trasfonde in un agire politico consensuale e consapevole. Ma come evitare una pedagogia predicatoria, privilegiando una comunicazione e una dimensione costruttiva in un periodo di crisi della politica? Riconoscendo un passato che trovi riscontro civile in un contesto, nell’ambiente e nello spazio in cui si vive.
Nel nostro tempo non occorre un’inflazione di ricordi, ma la capacità di sintesi del passato, per lavorare su un presente che è in fondo la terra più problematica e oscura su cui ci si deve orientare.
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