(di Filippo Bocci) – In una narrazione costruita su misura per gli uomini, la Storia ha dimenticato più di mille donne che durante la prima guerra mondiale trasportarono sui monti della Carnia, sulle loro spalle, gerle pesantissime, parliamo di 30/40 chilogrammi, piene di munizioni e rifornimenti per gli alpini sulla linea del fronte, sostenendo salite dai dislivelli proibitivi.
La scrittrice friulana Ilaria Tuti ha dato loro voce con Fiore di roccia, romanzo edito da Longanesi, attraverso la figura epica di Agata Primus.
Tutto, nel racconto in prima persona, è mediato dal giudizio di Agata, complesso, analitico. Le cose e le persone respirano con lei, prime fra tutte la montagna, il palcoscenico vivo dell’azione, un po’ il simbolo della pulizia e dell’integrità morale dei personaggi che la abitano.
È il luogo impervio, difficile da penetrare, che però allena al silenzio e a soffrire, insegna a vivere contenti della semplicità e delle piccole cose, perché la felicità non arriva da sola ma è quasi un dovere, oneroso, quotidiano:
“… So che la felicità, a volte è solo constatare che nulla è mutato… La felicità, in fondo, è anche ostinata disciplina mentale”.
Poi c’è la guerra, e la sua insensatezza, dove Dio è tanto più vero nella sua assenza o impotenza: “C’è bisogno di Dio, su queste cime. Ma io non riesco a scorgerlo tra le croci scure conficcate nel terreno”.
E ancora: “È il grandioso disegno di Dio. Nasciamo e moriamo per un gioco di coincidenze. E, nel mezzo, soffriamo e amiamo”.
Agata Primus, dicevamo, ci narra la storia, ne condivide i protagonisti colorandoli della sua generosità.
Ismar, il capitano Colman, il tenente medico Janes, e Lucia, Viola, don Nereo, tutti irradiano il riflesso quasi religioso dell’umanità di Agata: “La vostra compassione ha qualcosa di sacro”.
Agata è tanto pulita interiormente da travalicare l’istinto di sopraffazione della sopravvivenza e le logiche ferine della guerra, costi quel che costi.
I sentimenti sono scritti in lei con la maiuscola, e, in una vita così dura che porta via con sé non solo il fisico ma anche lo spirito, quando la stanchezza e la fatica sono anche più forti della miseria e della fame, l’onore, il coraggio, il desiderio inalienabile di libertà sprigionano forze ed energie insospettabili.
E allora i protagonisti di questo piccolo mondo non hanno bisogno di lunghi discorsi. Le loro espressioni, i gesti, i comportamenti hanno dentro un universo di sentimenti di per sé fisici, solidi, così come concrete, tattili, sono le loro emozioni.
Il resto lo fa la scrittura piena di poesia, il cui sguardo sensibile si posa sulle parole, le illumina, le compenetra.
Ilaria Tuti è brava a raccontare il bello nascosto nelle piccole cose, nell’intimità dei gesti e contemporaneamente a smascherare il cinismo di chi approfitta del bisogno e specula sulle necessità.
Sotto l’ombrello dei fatti l’autrice fa vera narrativa e la potenza delle immagini è talmente forte che dà i brividi.
È poesia che sospende la Storia:
“La neve è arrivata con un mese di anticipo. Ti è venuta a prendere, ho pensato. Ha dipinto la tua pelle di cenere e ti ha vestito di freddo”.
Le parole sono spesso in contrasto tra loro, come in una replica di vita e morte: “Quassù, vicino al cielo, ogni ordine è sovvertito, persino la natura delle abitudini comuni si fa aguzza e micidiale e un canto innocente può annunciare la morte”.
Ma saranno proprio le parole a fare breccia in un odio costruito a tavolino, che rende nemici gli esseri umani. E solo Agata, una donna, avrà il coraggio di pronunciarle.
Alla fine, potremmo definire Fiore di roccia un romanzo di formazione, dove Agata si ritrova sola davanti a una scelta cruciale e, se è lecito il gioco di parole, di trasformazione: “Non sono più io. La trasformazione è avvenuta, ma la creatura uscita dal bozzolo non è una farfalla. Rinasco nelle vesti di una grigia, opaca falena. Dispiego le ali tagliuzzate dalle dita del fato e volo scomposta”.
Eppure Agata saprà prendere la decisione giusta e essere donna e libera, là dove si fa la Storia.
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