(di Filippo Bocci) – Si può girare un film che racconti soltanto emozioni? Che sia esso stesso pura emozione e nient’altro? Sì, se sei Pedro Almodóvar, e se hai deciso di parlare di te nei panni di un regista come te, in un viaggio della memoria dolente ma anche sognante, delicatamente poetico. La pellicola si intitola Dolor y gloria e il personaggio alter ego di Almodóvar è interpretato da Antonio Banderas, premiato come miglior attore con la Palma d’oro a Cannes.

Sono tanti i temi presenti nell’opera, alcuni usuali nella filmografia del cineasta spagnolo, primo fra tutti quello dell’omosessualità o, in generale, quello di una sottesa ambiguità sessuale, resa con garbo e anche con compiaciuta ironia.
Qui però il film parla soprattutto d’amore, che, se non salverà il mondo, può però salvare noi stessi, unico antidoto alla solitudine dell’anima.
Salvador Mallo, regista depresso e afflitto da dolori più o meno immaginari, smette di lavorare e si trascina quotidianamente in un improduttivo autocompatimento.
Pure, uomo curioso, sensibile e di raffinata intelligenza artistica, è interiormente sollecitato a mantenere viva la fiamma dello spirito attraverso gli echi del passato, gli affetti importanti della sua vita: la mamma innanzitutto, topos nodale di Almodóvar, che sempre lo accompagna nella dolcezza del ricordo, negli occhioni sognanti del bambino come nei sensi di colpa del figlio adulto.
Poi gli uomini, un amore importante del passato per il quale ha scritto anche un testo che un attore porterà in scena, e che sarà la prima scintilla della rinascita.
Perché il dolore e l’abbattimento possono, per Salvador, essere superati solo attraverso la forza e il valore del ricordo.
Ecco allora che il film si snoda attraverso una geniale sequenza temporale meta-cinematografica che non sveliamo, all’interno della quale si affollano continui flashback, in una storia che di fatto non è raccontata ma riproposta, perché tutto è già successo e può rivivere solo attraverso dei filtri protettivi, primo fra tutti la memoria, a sua volta vagliata dal fondamentale medium del cinema.
Un eccellente Antonio Banderas ci conduce in questo viaggio – per riprendere il titolo –
dal dolor del vivere alla gloria della vittoria sullo stesso, tutta giocata sull’amore, che sia passione artistica, desiderio fisico o voluttà del ricordo.
L’attore andaluso sfodera una recitazione minimalista, composta, intimo specchio di ordinario dolore nell’esperienza del quotidiano.
Tutto è reso in una gamma di espressioni pure, di attimi istantanei di naturale ritrosa pudicizia, tanto più azzeccati quanto più propri di un salotto piuttosto che di un set.
Banderas ci mette a nostro agio nella casa di Salvador Mallo, è come fossimo lì anche noi, ospiti di un amico.
Accanto a lui un altrettanto straordinario Asier Etxeandía, l’amico attore Alberto Crespo, anche lui personaggio a caccia di emozioni che diano un perché di bellezza alla fatica giornaliera del vivere.

E non si può tacere della classe di Penélope Cruz, la solare giovane mamma del piccolo Salvador, il promettente Asier Flores.
Il prodotto finale è una bella storia in cui lasciarsi scivolare, riparati.
Un film che fa compagnia, a cui ripensare con serena, familiare nostalgia.