Quando muore un grande artista come Dario Fo è sempre difficile trovare parole giuste e vere per raccontarlo: troppo facile è cadere nella retorica, nell’agiografia. Ora che lacrime, parole, immagini sono state versate tutte, a noi di b-hop piace ricordarlo così come lui stesso si è narrato in uno dei suoi saggi teatrali.
Si era alla fine degli anni Sessanta, la rivoluzione giovanile accendeva anime, idee ed utopie in ogni parte del mondo. Dario e Franca erano artisti già molto affermati, la loro compagnia calcava con fortuna e successo i palchi di tutta la penisola.
Negli anni precedenti erano stati fortemente osteggiati dall’establishment dell’epoca, a causa delle tematiche portate in scena. Frequentemente funzionari del Ministero dello Spettacolo erano stati presenti durante le loro recite per controllare l’aderenza al copione.
“Gli arcangeli giocano a Flipper”, un fortunato testo scritto da Dario Fo, venne interrotto dalla questura dopo 192 repliche perchè gli attori si erano spesso allontanati dal tema dichiarato.
Inoltre la censura aveva ripetutamente colpito gli interventi televisivi di Fo alla RAI.
Ma in quegli anni di fortissimo fermento culturale il grande cruccio di Dario e Franca era quello che a vedere i loro spettacoli, dove si faceva satira contro lo sfruttamento dei sottomessi, c‘era un pubblico quasi esclusivamente borghese.
Insomma i protagonisti del loro teatro, coloro ai quali si rivolgeva la loro parola, in teatro non c’erano mai e forse mai ci sarebbero entrati nella loro vita.
Quindi decisero di portare la loro arte nei luoghi frequentati dai proletari: le case del popolo.
Ma come convincere la propria compagnia ad un così radicale cambiamento?
“Ecco, quello che io e Franca vorremmo riuscire a creare dalla prossima stagione sarebbe un teatro popolare, col quale recuperare un teatro di classe, dove il mezzo usato a piene mani sarebbe quello dell’informazione, della satira e del paradosso. Tutto organizzando un teatro autonomo e soprattutto libero dalle interferenze politiche della censura”.
“Con che mezzi, quale espediente?” chiesero gli attori in coro.
“Applicando la Costituzione, c’è un articolo che più o meno dice: un gruppo di cittadini che si riunisce in collettivo per realizzare un discorso culturale senza scopo di lucro non può essere sottoposto alla verifica e al controllo della magistratura”.

Ma soprattutto come riuscire ad allestire i loro spettacoli in spazi attrezzati per ospitare feste danzanti, gare di liscio o tavolate per il tressette?
Progettarono un teatro alternativo. Un palcoscenico a moduli utilizzabile per una composizione diversificata a seconda degli spazi e due torri di altezza regolabile risolsero gran parte dei problemi.
Partirono verso l’Emilia e la Toscana, terre dove le Case del Popolo era talmente tante da far pensare che “Dio era veramente socialista”.
A Cesena, tappa del loro primo spettacolo, fu subito necessario affrontare un grosso problema acustico. Le voci e i suoni, a causa del soffitto piatto, rimbombavano fino a determinare uno spiacevole effetto eco. Qualcuno propose l’utilizzo dei contenitori di uova. Franca ebbe l’idea di cucire insieme quelle sagome compresse ma per farlo occorrevano aghi in metallo lunghi almeno 20 centimetri. Un operaio socio della Casa del Popolo suggerì di usare raggi di ruote di bicicletta ed un altro s’industriò per reperirli da un fratello che aggiustava biciclette e di trasformarli in aghi. Altri soci e studenti si misero a disposizione per le cuciture, altri ancora corsero a rastrellare nelle Coop di Cesena i contenitori.
In metà giornata, tutti insieme, con scale reperite non si sa dove, con una decina di tecnici improvvisati, avevano risolto il problema.
Quella sera, a Cesena, Franca e Dario impressero alla loro carriera ed al teatro italiano una traccia indelebile.