(di Filippo Bocci) – A leggere e rileggere i dieci appassionati racconti di Come una storia d’amore, scritti da Nadia Terranova, Giulio Perrone Editore, ci sembrerebbe esercizio difficile e forse fuori dettato parlarne cominciando dai personaggi che animano le loro storie. Ci pare più giusto dirigere l’occhio innanzitutto sulla città di Roma, la protagonista indiscussa della raccolta.
Ci accorgeremo immediatamente che anche lei, sì, “lei” come le altre donne del libro, non si presterà facilmente ad essere messa a fuoco, perché se da un lato la scrittrice muove i suoi personaggi in luoghi precisi che tutti i romani conoscono (d’accordo, anche i messinesi, e forse persino meglio di noi “indigeni”), dall’altro il Pigneto, Porta Maggiore, il quartiere ebraico, Largo Argentina e ancora la Stazione Termini e quella della metropolitana di Laurentina, Casalbertone o Piazza Esedra sono istantanee del momento letterario, doppioni di una città presa a prestito.
Non fanno toponomastica, sono una trasposizione della secolare caput mundi Roma, mentre quella alla quale si rivolge la voce narrante, quella cui scrivere una lettera è “R.”, col punto, perché in fondo non è una storia d’amore ma è “come” una storia d’amore.
Del resto l’esergo tratto da Passaggio in ombra di Mariateresa Di Lascia ci avvisa subito che ci stiamo avventurando, passando per strade, luoghi, case, ristoranti, bar, dietro le volutamente scarse tracce di donne pellegrine e financo esuli in una “terra senz’anima”.
Ecco la città dal “cielo invadente” e dalla “luce forsennata” (e anche “stronza”). Ecco il Pigneto, e le sue case, dove si finisce con l’essere “macchie di non appartenenza in un quartiere di appartenenze”. Ecco il bar “anonimo e sciatto” alla Vigilia di Natale, per un’ora però il “centro del mondo”, perché fermare il tempo è “spazzare via la morte”, può dare un momento di felicità, se lo sguardo chinato sul mondo lo colora un poco, leggendo il bello che solo una narrazione suggestiva è in grado di cogliere.
E così, mentre l’occhio che dice io sembra distaccato, spesso disincantato, talvolta cinico, questi personaggi alla fine non fanno altro che tenere in vita sé stessi a partire dai luoghi, quasi a pietire un’identificazione, un’appartenenza, attaccandosi anche ai dettagli, ingigantiti, per esistere: “Nilima sbaglia il mio cognome e lo riscrive perché non ha azzeccato le doppie; mi convinco che sia un problema spaventoso, enorme. Ha ragione lei: non potrei mai ritirare il mio cappotto se non ho le consonanti al posto giusto. Certo che no”.
C’è in ognuna delle voci femminili narranti una rivendicazione di esistenza, perché no di felicità, il cui desiderio è pure così potente da spingerle senza risparmio, e spesso solo per la gioia di un attimo, a fantasticare un’alternativa possibile. Personaggi sfiancati, stremati, in fuga, – “c’è sempre un buon motivo per desiderare di scomparire” – con i polmoni che “hanno trovato difficile persino respirare” (per tornare alle parole della Di Lascia in esergo), a cui non giova granché neanche la consolazione di un’infanzia che non tornerà se non in un ricordo mediato.
Personaggi che avrebbero urgenza di riposare, necessità di un baricentro, di un luogo e di un’umanità prossima lievi e accoglienti. Sono donne che la scrittrice delinea con un breve tratto, un tocco di pennello, mentre storie su storie si assommano e vite su vite si susseguono.

Perché l’altra grande protagonista di questi racconti è proprio la scrittura, che moltiplica i fuochi della narrazione alla disperata ricerca di nuove cose e nuove emozioni, l’unica arma contro l’incomunicabilità, la solitudine, il rassegnato senso della fine.
E così la pagina è piena, ossessiva, coatta, pressurizzata. C’è in Come una storia d’amore quella sensibilità, quel naturale bisogno – che potremmo pensare “gucciniani”: vale anche solo l’assonanza della Canzone quasi d’amore – di dare nome una volta di più al vuoto interiore, alla solitudine, al cambiamento appena vagheggiato – la “noia già usata” e i “goffi voli d’azione o di parola”, chioserebbe il Maestro modenese – .
Una scrittura che rilancia ogni volta, testarda, e da capo ricomincia.
La scrittura di Nadia Terranova la riconosci. Ti colpisce come una storia d’amore, fresca, vitale, felice oltre l’intenzione.
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