Dopo L’intervallo, che nel 2013 gli è valso un David di Donatello come miglior regista esordiente, Leonardo Di Costanzo, con il suo nuovo film L’intrusa, cala lo spettatore in un’altra storia ambientata nella difficile periferia di Napoli.
Giovanna, donna generosa e determinata, gestisce con l’aiuto di altri volontari una masseria, dove le mamme portano i figli nel doposcuola per sottrarli al degrado che opprime il quartiere. Si tratta di uno spazio di fatto chiuso, un’isola del bene che regala momenti di spensierata creatività ai bambini, un luogo sicuro, dove l’ordine viene improvvisamente stravolto dall’arrivo di Maria, la moglie di un boss della camorra, di cui Valentina Vannino rende a pieno la disperazione e la dignità.
Maria è lì a domandare, anzi quasi a pretendere ospitalità e aiuto perché ha due bambini che vuole allontanare definitivamente dalla famiglia del marito. Non è simpatica Maria, non sa chiedere, è sgarbata, sembra un animale braccato, ma ha fierezza e onestà d’animo, per nulla scalfite dal dolore e dall’umiliazione.

Così, da un ordinario fatto di cronaca, Di Costanzo inventa un film che, fotografando senza fronzoli una grigia e triste realtà quotidiana, arriva a interrogarci sul grande conflitto etico tra bene e male.
È giusto accogliere senza condizioni chiunque è nel bisogno? Sono in torto gli altri genitori, che pur venendo dallo stesso ambiente, sono dal lato opposto della barricata rispetto a Maria, e se ne vogliono sbarazzare? È in errore il senso comune che non sa capacitarsi dell’atteggiamento attento e disponibile di Giovanna?
O invece è proprio lei quella fuori posto, la vera intrusa, nella sua scelta assoluta a favore dell’ospitalità, perché non ci vuole la carta d’identità per chi è in cerca forse solo di comprensione?
Nel microcosmo della masseria tutti hanno le loro ragioni e le loro paure, e obiettiva è la macchina da presa del regista, capace di restituire una realtà claustrofobica, spesso puntata sui volti di Maria e Giovanna che lanciano gli sguardi oltre le finestre, oltre le porte, come alla ricerca di spazi più ampi, di vie d’uscita.
Dolcissimo, paterno, quasi neorealista, è infine lo sguardo contemplativo di Di Costanzo sui bambini, adulti prima del tempo.

E cresciuta troppo in fretta è la piccola Rita, figlia dell’intrusa, la cui parabola narrativa rammenta che la purezza e la bontà sono nella natura di tutti e solo le contingenze della vita cambiano i cuori e li rendono aspri.
Con un passato da documentarista nel suo bagaglio, il regista ischitano sceglie di nuovo attori non professionisti e crea un film popolato soprattutto di visi, di silenzi che celano l’angoscia di coscienze lacerate nella scelta di decisioni dolorose ma necessarie. Un film che suggerisce oltre quello che racconta, soprattutto negli occhi spesso impotenti di Giovanna, una spontanea e misurata Raffaella Giordano.