(di Filippo Bocci) – “Magari Sharon vi avesse sterminati tutti dal primogenito”. Questa la frase radicale, viscerale, maledicente, che il cristiano maronita Toni Hanna lancia al palestinese Yasser Abdallah Salameh, che a quel punto lo aggredisce rompendogli due costole. Tutto era nato da un banale incidente per un tubo di scolo di un balcone rotto. Un banale incidente che tesse la trama dell’Insulto, splendido lavoro del regista libanese Ziad Doueiri, candidato all’Oscar 2018 come miglior film in lingua straniera.
I due antagonisti finiscono a combattersi, in punta di diritto, in una estenuante battaglia in tribunale, trasformando una bega privata in un caso di Stato.
In realtà lo scontro personale è solo l’evidenza spiccia del grande dramma di una nazione. Il Libano ha fortemente risentito degli effetti dei conflitti arabo israeliani; una comunità che, dopo la guerra del 1967 e il Settembre Nero 1970 in Giordania, registrava una consistente presenza di profughi e guerriglieri palestinesi nei propri confini.
Dalla forzata e delicata coabitazione nacque una lunga, drammatica guerra civile, che vide l’invasione da parte di Israele e l’intervento delle Nazioni Unite, fino alla creazione di una forza multinazionale. Il che non impedì il perpetrarsi di atrocità ai danni di civili, come il tristemente famoso massacro di Sabra e Shatila e come la strage di Damour del 1976, che viene raccontata nel film.
L’opera di Doueiri è costruita su un’acuta impalcatura teatrale, un’idea fra le righe anche grottesca, un po’ alla Durrenmatt, un grande processo nazionale che tiri le fila alla storia e la chiuda una buona volta.
L’ambizione del racconto è di mettere una pietra sopra alla guerra civile, alla devastazione, al dolore e di conciliare in un commosso affresco etnie, religioni – in Libano ci sono cristiani (cattolici, ortodossi e protestanti), musulmani (sunniti, sciiti e drusi), ebrei – ma anche le famiglie al loro interno, e non a caso gli avvocati dell’accusa e della difesa sono padre e figlia.
In realtà Hanna e Salameh sono gli eroi puri di questo film. Essi, che incarnano con forza il risentimento e i pregiudizi della nazione e della sua storia, hanno l’endemica capacità di superarli e vincerli. I loro anticorpi sono la forza dell’onestà intellettuale e il riconoscimento dell’identità dell’altro.
Nell’impianto allegorico della narrazione è solo il coraggio e il rispetto umano dei protagonisti a oltrepassare la vergogna delle guerre e i disastri della politica.
Al male che è banale, i due contrappongono, a modo loro, il bene che è contagioso, mentre l’occhio dell’inquadratura, la pietas del regista. coglie il dolore e la dignità di vincitori e vinti.
Coppa Volpi a Venezia come miglior attore a Kamel El Basha, che interpreta Yasser Salameh.