(di Filippo Bocci) – Al regista Marco Bellocchio è riuscita con Il traditore l’operazione di trasformare la sala cinematografica in uno spazio teatrale. La pellicola racconta la vita del più importante e famoso collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, un film dunque, ma soprattutto una rappresentazione, una “religiosa” messa in scena.
L’impianto è teso come in un contesto di guerra, e i morti ammazzati li segna un contatore impazzito, come quello dei flipper.
La sceneggiatura incalzante – meritano di essere citati ad uno ad uno lo stesso Marco Bellocchio, Ludovica Rampoldi, Valia Santella, Francesco Piccolo, Francesco La Licata – e la potenza di alcuni brani verdiani completano il quadro maestoso, la solennità del tragico.
La storia della mafia italiana è antica e conosciuta e i mali del nostro paese passano sullo schermo attraverso
personaggi resi simili, con intenzione, a dei tipi, a delle maschere da commedia.
C’è il Politico ambiguo, il Giudice eroe, il Mafioso rispettato e temuto, il Poliziotto servo fedele delle Istituzioni.
Qui però Bellocchio inserisce la variabile artisticamente vincente del vissuto di Buscetta, il racconto si lascia guardare dall’angolazione dell’esponente di Cosa nostra, e cattura lo spettatore che un po’ si affeziona all’uomo, dimenticando l’uomo d’onore.


Al centro, costantemente sulla scena, scena egli stesso, un Pierfrancesco Favino monumentale, sovradimensionato “boss dei due mondi”, che ricostruisce le epoche di Buscetta da artista di palcoscenico, attraverso le emozioni, disegnando un personaggio estremamente complesso, dalla psicologia per niente scontata.
Fra Palermo e Rio de Janeiro, Favino tratteggia un Buscetta sì criminale ma, nella sua logica, intellettualmente onesto, un mafioso schifato dalla violenza dei corleonesi di Totò Riina, un uomo stanco e dolente, interiormente sconfitto, umano nonostante tutto.
All’altezza il resto del cast: Maria Fernanda Cândido, intensa e sensuale, è la terza moglie del boss; Luigi Lo Cascio si ritaglia un Totuccio Contorno esplosivo, grazie anche all’impatto graffiante del dialetto palermitano. Plauso particolare per Fabrizio Ferracane, un Pippo Calò da manuale, ontologicamente mafioso.
Le musiche sono del Maestro Nicola Piovani. Insomma un film che non serve poi tanto raccontare, che deve essere visto, di una bellezza che solo il grande cinema sa immaginare.
