(di Rinaldo Felli) – Il giovane e pluripremiato Damien Chazelle ci regala, dopo “La La Land”, un altro film incentrato sulla realizzazione di un sogno. Se nel film vincitore di sei Oscar i sogni erano quelli artistici e romantici dei due protagonisti, nel caso di “First Man” il sogno, che il regista intende rappresentare, è quello evolutivo dell’intera umanità.
La Luna, quello specchietto che in alto nel cielo illumina le nostre attese, che da sempre ha acceso le fantasie di scrittori, musicisti, pittori, scienziati è la protagonista di questa storia anzi, per esattezza, ad essere protagonista assoluto è il sogno di conquistarla.
Un evento raccontato dal regista con garbo, gentilezza, precisione, con l’obiettivo prioritario di non mettere mai la Storia al servizio del film ma piuttosto di realizzare il suo esatto contrario, anche al costo di privarsi di qualsiasi accondiscendenza verso un utilizzo esagerato dell’epicità e usando gli effetti speciali con equilibrio e maestria.

“Il raggio della Luna ecco viene a chiamarmi”, così recitava Cirano de Bergerac.
Probabilmente fu lo stesso raggio a “chiamare” il sogno di Neil Armstrong, First Man, il primo uomo, l’astronauta che nel poggiare la sua impronta indelebile sul Mare della Tranquillità pronunziò la celebre frase:
“Questo è un piccolo passo per un uomo un gigantesco passo per l’umanità”.
Chazelle e Ryan Gosling (il somigliante e perfetto interprete) ce lo tratteggiano come un uomo cortese, gentile, umile ma anche schivo e in alcune circostanze perfino rude. Ma soprattutto un uomo dilaniato dal dolore provocato dalla scomparsa per malattia della sua Karen, l’amata figlia di soli due anni.
Forse fu proprio quella ferita inguaribile a dargli il coraggio, la forza, la spinta per intraprendere la missione, considerata quasi impossibile, di comandare l’Apollo 11 ed allunare con “Eagle”, il Lem, sulla crosta del nostro satellite.
Quel dolore, rappresentato da un braccialetto di Karen, Armstrong lo porterà con sé e l’abbandonerà, con un gesto catartico, in un cratere lunare. Così quel dolore, seppur lontano da sé stesso, rimarrà per sempre, incancellabile, immutabile nell’universo.
L’epopea pionieristica di quei naviganti del cielo ci viene raccontata fin dai primi difficili, quasi artigianali passi. Dalla claustrofobica cabina della Gemini, sino ad arrivare al più evoluto progetto Apollo, dalla rincorsa ai successi dell’allora Unione Sovietica sino a quel 20 luglio 1969 quando First Man, come un alpinista giunto sulla vetta più alta del mondo, conficcò la bandiera a stelle e strisce sulla crosta lunare.
Ci fu un momento in cui la moglie di Armstrong (interpretata da un’ineccepibile Claire Foy) si disperò con il capo progetto Gemini perché, a suo dire, la Nasa non aveva nulla sotto controllo e sembravano tutti dei bambini intenti a giocare. Quel momento, alcuni anni dopo, si trasformerà nell’ammirazione, nelle celebrazioni che il mondo intero destinerà a quella straordinaria impresa
Quel 20 luglio, quel giorno, quella notte, quelle ore, non solo hanno lasciato un’orma ed una bandiera su un altro mondo ma hanno anche scolpito un ricordo incancellabile in chiunque, in qualche modo, le abbia vissute.
Sarà il ricordo di un giorno, una notte, una manciata di ore nelle quali sono scomparse magicamente qualsiasi forma di diversità, azzerate le classi sociali, le diversità religiose, politiche, sessuali grazie al fatto che, mentre guardavamo il bianco e nero della televisione, ascoltavamo la cronaca lontana e gracchiante di una radio a transistor, osservavamo commossi una luna che ci appariva improvvisamente diversa.
Tutti noi ci siamo identificati in un unico uomo, in un astronauta, in Neil Armstrong, First Man.