Giorgio Diritti, regista, sceneggiatore e montatore italiano, trae spunto dal titolo del suo film d’esordio “Il vento fa il suo giro”- proverbio occitano con il significato di “tutto ritorna”- per vivere nuovamente l’esperienza del suo lavoro cinematografico attraverso l’ultimo libro “L’uomo fa il suo giro. Storie di condivisione dentro e fuori del set” (Laterza, 2015, pp. 97, euro 12).
I suoi tre film – oltre al sopracitato si aggiungono “L’uomo che verrà” e “Un giorno devi andare” – costituiscono in realtà soltanto l’espediente per porre una serie di interrogativi che dal cinema passano alla società e, inevitabilmente, da quest’ultima al rapporto tra cinema ed economia.
Gli interrogativi che si pone l’autore sono semplici, concisi, freddi: si può far cinema senza budget? Qual è la funzione di un film: l’esser prodotto di consumo o esser veicolo di sensazioni, idee, esperienze?
A ciascuna delle domande, altrettanto semplicemente, il regista riesce abilmente a rispondere, avvalendosi di storie ed aneddoti vissuti durante la creazione delle pellicole.
Nell’esposizione di un punto di vista personale, sicuramente interessante, si percepisce, in ciascuna delle vicende narrate, una nota antica, familiare, già cantata, ma innegabilmente efficace: condivisione.
Questa è la chiave di volta del piccolo ma intenso saggio di Diritti, il mezzo che ha permesso la creazione del suo primo film, realizzato con un capitale modestissimo.
Inevitabili e degne di interesse sono anche le riflessioni sociali che emergono dalla narrazione e dalla riflessione fatta dall’autore sulle sue opere. Esemplificative, nel film “L’uomo che verrà” e nel libro, sono le parole pronunciate con ingenuità dal vecchio di casa in una scena svolta a tavola, mentre si discute sul tema della migrazione verso la Francia: “Come sarebbe? Non capisco. Perché devono pagare l’ora di lavoro il doppio di qui? Un’ora è un’ora qui come altrove!”, a sottolineare, attraverso lo stupore quasi candido del personaggio, l’irrisolvibile dilemma delle disuguaglianze economiche e sociali che caratterizzano la contemporaneità, così nitidamente riconoscibili anche tra realtà geograficamente contigue. L’ora di lavoro, dunque, considerata non nel suo valore assoluto, quello che per il vecchio è equivalente qui e nell’altrove così vicino, bensì nella sua monetarizzazione, drammaticamente relativa.
La prosa dell’autore, asciutta e diretta, senza ridondanze e contorni, sa ben giungere al suo obiettivo. Di buon gusto anche la copertina del libro: nessuna immagine, nessuna allusione visiva, riservata e affascinante come i vecchi libri del passato privi di ornamenti, dove il contenuto veniva appunto “coperto”. Tra le righe, dunque, una sobrietà che ben si sposa con la pur efficace architettura del testo.