(di Filippo Bocci) – Il pregio maggiore dell’ultimo libro di Bruno Arpaia, Il fantasma dei fatti edito da Guanda, è, paradossalmente, la sua architettura sfuggente, la mancanza di un centro nella narrazione. Il lettore è sempre dentro lo stesso racconto, ma di pagina in pagina la messa a fuoco cambia.
Potremmo dire innanzitutto che si tratti di una vicenda italiana, o meglio di quattro diverse storie che in poco meno di tre anni hanno cancellato il sogno di uno sviluppo avanzato nel campo scientifico ed energetico per il nostro Paese.
La più nota delle quattro riguarda l’attentato ad Enrico Mattei nel 1962, e con lui la fine della strategia che mirava all’autonomia energetica dell’Italia.
Un anno prima c’era stata la morte per incidente stradale di Mario Tchou, ingegnere informatico della Olivetti, – Adriano Olivetti era già morto di infarto nel 1960 – e la Divisione Elettronica della Società sarà presto svenduta “per pochi spiccioli” alla multinazionale statunitense General Electric.
E ancora, nella primavera del 1964 sarebbero seguiti gli arresti di Felice Ippolito, segretario generale del Cnen, che puntava ad un Italia in grado di costruire reattori e di avere una tecnologia nucleare autosufficiente, e quello di Domenico Marotta, direttore dell’Istituto Superiore di Sanità ormai in pensione, che, di fatto, assestò un colpo mortale all’Ente e alla ricerca biochimica e farmaceutica del nostro Paese.
Potremmo anche dire che si tratti di una vicenda internazionale, che inserisce la nostra trama di quegli anni nel quadro mondiale e che passa attraverso il potere economico americano ed inglese, le “Sette Sorelle” del petrolio come le aveva definite lo stesso Mattei, ma soprattutto attraverso John Fitzgerald Kennedy, l’invasione alla Baia dei Porci, i tentativi innumerevoli di uccidere Castro, l’assassinio a Dallas del Presidente e ancora quello di Che Guevara in Bolivia, e poi Nixon e le pressioni della CIA per destabilizzare Salvador Allende in Cile, e il Watergate e tutti gli eventi che conosciamo, o crediamo di conoscere.
Proprio alla CIA è legato l’altro fondamentale filone del libro, quello più genuinamente narrativo, quello, “forse”, della finzione.
Tutto ruota intorno alla figura di Thomas Karamessines, un agente dell’Agenzia in pensione realmente esistito, capo della stazione CIA a Roma dal 1958 al 1961, custode e prigioniero dei suoi segreti, e al suo ultimo giorno di vita.
Quel 3 settembre del 1978 è il “fantasma dei fatti” che Arpaia per tutto il libro alterna agli eventi sperando di illuminarli, perché, citando Valerio Aiolli, ci dice che “non si scrive un romanzo per raccontare una storia.
Si racconta una storia in forma di romanzo per arrivare a conoscere qualche cosa, qualche cosa che se tu non scrivessi quel romanzo ti resterebbe celata”.
E così, mentre gli avvenimenti non quadrano per più di dieci anni nella costruzione mentale di Arpaia, il personaggio Karamessines potrà snocciolare in poche ore la sua verità, semmai ne esista veramente una.
Potremmo dire che si tratti, infine, di una vicenda personale. Perso nei meandri inestricabili della geopolitica internazionale, tra lotte per il potere politico ed economico, morti misteriose, omicidi, spie, colpi di Stato, è solo grazie all’appoggio degli affetti che l’autore riesce a fare chiarezza e pulizia nello “gliòmmero” da dipanare, a mantenersi con dignitosa obiettività attaccato alla realtà.
Ecco allora che il calore degli amici, primo fra tutti nel ricordo Peppe D’Avanzo, e poi Pietro Greco, Javier Cercas, Paco Taibo, è valvola di umanità, logico, necessario contraltare al freddo e infido universo delle spie.
E, nell’aprire al proprio vissuto personale, il linguaggio si fa mano a mano più diretto, quasi veemente grido di denuncia di un Paese che ha perduto, colpevolmente inerte, tutti i treni, non da ultimo e non meno amaro anche quello della cultura.

È un lavoro, questo di Bruno Arpaia, perfetto nell’impianto letterario, lucido nella resa storica, sempre su e giù tra inchiesta, fantasia, autobiografia, ossessivo nel martellare muri, suggerire ipotesi, evocare fantasmi, gli unici che, ne siamo convinti anche noi, possano essere raccontati.
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