Oggi analizziamo il difficile rapporto fra propaganda e diritto alla corretta informazione: l’esempio del referendum del 17 aprile sulla presenza delle trivelle nel Mediterraneo, presentato con parole così semplici da indurre a false conclusioni.
Le nostre società, le società democratiche occidentali, funzionano in gran parte grazie al sistema dell’informazione. È l’informazione (oltre, ovviamente, alla mentalità e ai valori di ciascuno) che orienta la scelta del voto e le posizioni personali sulle grandi questioni del dibattito pubblico.
È un normale gioco delle parti, perciò, che ciascun gruppo di pressione tenti di orientare l’opinione pubblica presentando al meglio i propri argomenti, qualsiasi sia l’oggetto del contendere. Si parla di liberalizzazione delle licenze per i taxi? I fautori punteranno sui costi troppo alti del sistema regolato da licenze, i tassisti esalteranno le maggiori garanzie di qualità e sicurezza di un sistema strettamente regolamentato come quello attuale.
Il cittadino si farà una sua opinione e orienterà il suo voto di conseguenza.
A volte però si assiste a dibattiti dove uno (o entrambi) i gruppi contendenti trovano più conveniente portare il pubblico dalla loro parte attraverso semplificazioni così estreme da risultare addirittura fuorvianti. Nel caso del referendum delle trivelle sta avvenendo esattamente questo.
I quesiti referendari ammessi e non ammessi
Il referendum è stato promosso, per la prima volta nella storia della Repubblica, da alcuni consigli regionali: per la precisione dai Consigli regionali di Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto. La regione Abruzzo, che inizialmente faceva parte del comitato promotore insieme alle altre nove regioni, si è ritirata nel gennaio 2016.
In realtà queste regioni avevano promosso non uno, ma sei requisiti referendari. Cinque però non sono stati approvati dalla Consulta. Questi sono i referendum non ammessi:
- abrogazione della dichiarazione di strategicità, indifferibilità ed urgenza delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi (art. 38, comma 1 del Decreto “Sblocca Italia”)
- abrogazione della nuova procedura di approvazione del cosiddetto “piano delle aree” di estrazione degli idrocarburi (art. 38, comma 1-bis del Decreto “Sblocca Italia”);
- abrogazione della nuova disciplina sulla durata delle attività autorizzate dal nuovo “titolo concessorio unico” (art. 38, comma 5 del Decreto “Sblocca Italia”);
- abrogazione del potere sostitutivo dello Stato di autorizzare, in caso di rifiuto delle amministrazioni regionali, le infrastrutture e gli insediamenti strategici (inclusi quelli necessari per trasporto, stoccaggio, trasferimento degli idrocarburi in raffineria e altre opere strumentali per lo sfruttamento degli idrocarburi) (art. 57, comma 3-bis del Decreto “Semplifica Italia”);
- abrogazione del potere sostitutivo dello Stato di autorizzare, senza “trattativa” con le Regioni, le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi (art. 1, comma 8-bis della legge 239/2004)
Questo, invece, il requisito ammesso (e per il quale si andrà a votare):
- “Divieto di attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi in zone di mare entro dodici miglia marine. Esenzione da tale divieto per titoli abilitativi già rilasciati. Abrogazione della previsione che tali titoli hanno la durata della vita utile del giacimento” (da ottenersi tramite l’abolizione del comma 17, terzo periodo, dell’articolo 6 del dlgs n. 152 del 2006, limitatamente alle parole: “Per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”)
Visti nel loro complesso, i requisiti proposti hanno un intento chiaro: si tratta, nel complesso, di riappropriarsi di una serie di competenze tradizionalmente affidate alle Regioni ma che il governo, soprattutto attraverso lo “Sblocca Italia”, ha avocato a sé in nome del superiore interesse nazionale (i primi cinque requisiti in particolare sono particolarmente espliciti e non sono stati ammessi).
Il motivo del contendere, detto in parole povere, è il potere dello Stato di gestire le attività legate alla ricerca e all’estrazione degli idrocarburi anche senza l’approvazione delle autorità regionali.
Questo spiega anche il perché l’iniziativa sia partita dalle Regioni, soprattutto in un momento storico come questo in cui si concentrano una serie di iniziative legislative (dalla spending review alla riforma del sistema elettorale) che tendono a limitarne l’autonomia e le competenze, nel bene o nel male.
Questo spiega anche perché il governo stia di fatto cercando di boicottare il referendum, anche con iniziative sicuramente discutibili come rifiutarsi di fissare un unico “election day”: le ricadute immediate per l’ambiente di una vittoria del “si” sarebbero infatti decisamente dubbie persino secondo i promotori (che parlano più di “segnali” che non di “conseguenze”), se non addirittura negative secondo i detrattori.
Lo scontro ha l’aspetto di un braccio di ferro prima di tutto politico.
Il quesito ammesso
Come già detto, l’unico requisito per il quale si andrà a votare è il seguente:
- “Divieto di attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi in zone di mare entro dodici miglia marine. Esenzione da tale divieto per titolo abilitativi già rilasciati. Abrogazione della previsione che tali titoli hanno la durata della vita utile del giacimento” (da ottenersi tramite l’abolizione del comma 17, terzo periodo, dell’articolo 6 del dlgs n. 152 del 2006, limitatamente alle parole: “Per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”)
La prima frase può essere fuorviante:
“Divieto di attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi in zone di mare entro dodici miglia marine. Esenzione da tale divieto per titolo abilitativi già rilasciati.
Potrebbe sembrare che sia un vietare nuove trivellazioni. In realtà, i nuovi impianti entro dodici miglia marine (circa 22,2 km) sono già vietati.
Il punto dove il referendum otterrebbe risultati è la frase successiva: “abrogazione della previsione che tali titoli hanno la durata della vita utile del giacimento”. Ovvero: obbligo di interrompere le estrazioni dagli impianti già esistenti al termine della concessione, anche se il giacimento non è esaurito. Non di smantellarli: solo di interrompere le estrazioni.
Il referendum si terrà in tutta Italia il giorno 17 aprile.
Le concessioni per giacimenti di idrocarburi liquidi e gassosi nel sottofondo marino sono una settantina circa, ma la maggior parte di questi sono situati oltre la soglia delle 12 miglia e non sarebbero quindi influenzati dal referendum.
Fra gli impianti realmente interessati, invece, ricordiamo quelli relativi a tre grandi giacimenti già attivi e per i quali è previsto un potenziamento (che sarebbe ovviamente bloccato dal referendum): il giacimento Guendalina dell’Eni nel Medio Adriatico, il giacimento Gospo di Edison nelle acque dell’Abruzzo e il Giacimento Vega di Edison nei pressi di Ragusa.
Le ragioni del sì e la promozione di queste ragioni
È a questo punto che entrano in gioco le dinamiche della comunicazione.
Riprendiamo le ragioni del sì direttamente dal sito ufficiale del Coordinamento nazionale No Triv elencandole nello stesso ordine in cui sono presentate nella home page del sito
- Per protesta contro il governo Renzi, che ha cercato di ostacolare questo quesito referendario.
- Per dare un segnale, una spinta, nella direzione di una riduzione dei combustibili fossili.
- Questo voto sarebbe uno strumento di coesione sociale per riunire le associazioni ambientaliste.
- Un sì al referendum darebbe un segnale alle compagnie petrolifere e le spingerebbe a non venire in Italia (il sito dice che “le costringerebbe”, ma ci sembra un’ipotesi un po’ azzardata, visto che di fatto oltre le 12 miglia dalla costa non vengono stabiliti nuovi limiti legali, ndr).
- I territori locali (leggi: le Regioni) continuerebbero a contare come in passato.
- La vittoria del sì sarebbe un grosso problema politico per Renzi.
Colpisce come in tutto questo elenco non ci sia un solo accenno ad effetti concreti e incontrovertibili sull’ambiente: il referendum serve “a dare un segnale”, non per i suoi effetti immediati.
Ecco che entra in gioco la comunicazione. In particolare, la comunicazione visiva (cioè i cartelloni, i meme che girano su facebook, le immagini sullo stesso sito e quant’altro).
Lo slogan ufficiale dice: “Vota sì: Ferma le trivelle”. Lo stesso comitato si chiama “No Triv”. Altri slogan usati sono “Cambia energia” e “Il mare è nostro”. Le immagini mostrano mari felici da proteggere dall’impianto di nuove trivelle.
Sicuramente nessuno degli slogan è falso, ma nel concreto rischia di ingenerare confusione – di far pensare, cioè, che il referendum serva a bloccare la costruzione di nuove piattaforme.
Nelle interviste rilasciate a quotidiani e reti tv si parla poi dei danni al turismo (gli impianti per la trivellazione deturpano il paesaggio) e alla fauna marina; sono però posizioni piuttosto deboli se si pensa che si sta parlando di impianti già esistenti – e quindi, in questo senso, gli eventuali danni sono già fatti.
La natura strettamente politica (e pienamente legittima, ma probabilmente povera di appeal comunicativo) dello scontro fra poteri locali e potere centrale resta sullo sfondo.
Le ragioni del no e la promozione di queste ragioni
Non mancano gruppi che sono fortemente contrari al referendum a causa delle sue implicazioni pratiche: a riunirli ci ha pensato Gianfranco Borghini, con il comitato “Ottimisti e Razionali” (una citazione dal libro: “Un Ottimista Razionale – Come evolve la prosperità” di Matt Ridley).
Se i No Triv promuovono il sì al referendum (a livello di comunicazione di massa) puntando sulla protezione dell’ambiente dai danni delle trivelle, gli Ottimisti e Razionali promuovono il no puntando alla protezione dell’ambiente… dai danni delle alternative alle trivelle (le petroliere che trasporterebbero il greggio di importazione)!
Ma andiamo con ordine.
Il comitato stigmatizza la posizione delle Regioni, inquadrandola come un atto di rivalsa per le riforme costituzionali che rischia però di avere conseguenze pesanti per il paese sia dal punto di vista della tutela dell’ambiente che da quello economico e occupazionale. E snocciola le sue ragioni, tutte molto concrete e molto immediate.
La tesi principale è che, per quanto sia auspicabile il massimo impegno nelle rinnovabili, è impensabile che dopo il referendum (o comunque nel breve volgere di qualche anno) cambi radicalmente la capacità produttiva degli impianti energetici attuali. E, attualmente, il gas “a chilometro zero” estratto dalle nostre coste è più pulito e più sicuro di gas e petrolio importati dall’estero.
Se passasse il sì, avverte il comitato, il metano attualmente estratto dai giacimenti verrebbe sostituito nel breve termine con maggiori importazioni di gas o di petrolio dall’estero, con ricadute negative facilmente prevedibili:
- Un maggior traffico di petroliere nei nostri mari: molto più inquinanti e rischiose delle stesse piattaforme.
- Le piattaforme esistenti non verrebbero comunque smantellate (i costi sono enormi e le compagnie energetiche non potrebbero essere obbligate a farlo né a riconvertire gli impianti, essendo comunque ancora potenzialmente utilizzabili.
- L’Italia dovrebbe sostenere costi molto maggiori per l’approvvigionamento energetico, con effetti negativi sull’economia nazionale in un momento già molto delicato.
- Avremmo una maggiore dipendenza dai paesi esportatori di gas e petrolio: il mondo arabo e la Russia.
- Infine, la cessata attività degli impianti esistenti lascerebbe a casa circa 11mila persone direttamente nelle attività estrattive e altri 21mila nell’indotto, oltre a danneggiare in modo forte tutte quelle imprese che sono legate alla filiera di settore.
Ecco perché gli Ottimisti e Razionali parlano di un referendum assurdo e auspicano un approccio più razionale al problema della difesa dell’ambiente.
A livello di comunicazione, proprio come il comitato No Triv in ambito comunicativo punta molto sull’aspetto “difesa delle coste dalle trivelle”, gli Ottimisti e Razionali puntano molto sugli effetti economici e occupazionali della scelta di bloccare le estrazioni – che sarebbe probabilmente la ricaduta più immediata e tangibile della vittoria del sì.
Chi è più ecologista?
La cosa curiosa di questo scontro è che entrambe le fazioni puntano sulla necessità di proteggere le nostre coste e dichiarano che è necessario investire sulle rinnovabili per ridurre progressivamente la dipendenza dell’Italia dai combustibili fossili.
A livello pratico, il comitato del “no” invita semplicemente a non andare a votare il prossimo 17 aprile, così da far fallire la consultazione – come spesso avviene quando si tratta di referendum.
Il comitato per il “si” invita, invece, a recarsi alle urne per il voto.
Entrambi dichiarano di agire in difesa delle nostre coste: ai cittadini l’onere di farsi un’idea della situazione e di quale sia la posizione che risponde meglio all’interesse collettivo.