(di Margherita Vetrano) – Periferia di Roma: Stefano Cucchi viene arrestato per detenzione di sostanze stupefacenti e viene portato in caserma. La notte che trascorrerà ne segnerà il destino. Alessio Cremonini, dopo alcuni film minori e qualche esperienza nella televisione come sceneggiatore e regista, approda alla 75° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e si cimenta con un tema spinoso e lo fa nel modo più sobrio possibile. “Sulla mia pelle” è un film dolente che non celebra martiri ma racconta una storia; cruda e dura per come probabilmente si è svolta.

La mancanza di una colonna sonora, i dialoghi essenziali, le frasi secche, gli ambienti gelidi; gli ultimi giorni di Stefano Cucchi devono esser stati davvero così. Ed è ciò che realmente sconvolge.
A metà strada tra la rassegnazione ad un destino già scritto e il rifiuto di un aiuto da parte dello Stato, il ragazzo accetta la sua condizione, sottovalutandola, che lo porterà alla morte.
Come tutti i film dalla trama ellittica e biografica, la vicenda si svolge in un crescendo di pathos che porta alla conclusione già nota. Effetto amplificato dalla risonanza che ebbe la notizia in cronaca.
Cucchi è stato il 172° detenuto deceduto in quell’anno, un numero raggelante, a maggior ragione considerando che la vicenda divise l’opinione pubblica.
La vita non vale meno se appartiene ad un ragazzo di strada e non può essere tolta a calci e pugni in una cella. Non può e non deve ad opera di chi è preposto a proteggere i cittadini.
Che la trasposizione cinematografica sia una fedele denuncia oppure no, “Sulla mia pelle” fa comunque riflettere e si esce dalla sala con un animo buio per l’ineluttabilità degli eventi ai quali si può solo assistere.
Che Stefano abbia rifiutato di difendersi per reazione ai “poteri forti” o perché fosse convinto che la sua voce non sarebbe stata ascoltata, dati i suoi precedenti, poco importa, resta un uomo morto per incuria, per uno scarico di responsabilità, per leggerezza. Un morto sulla coscienza di tutti quelli che sono stati a guardare.
Il film ci aiuta ad entrare nella sua pelle e a vivere quegli ultimi giorni in ospedale, nella sua solitudine, nel suo dolore non tanto fisico quanto morale per l’abbandono e l’isolamento.

Molto interessante l’esperimento di uscita in contemporanea del film in poche sale e sulla rete televisiva Netflix, non privo di polemiche ma dimostrativo di come in Italia si abbia ancora voglia di cinema.
Impressionante l’interpretazione di Alessandro Borghi, trasformato nel corpo ma soprattutto nella voce, che diventa così sottile da confondersi con quella dello Stefano originale, confermandosi così una presenza di spicco nel panorama cinematografico italiano.
Una buona prova anche per Jasmine Trinca che interpreta un’appassionata Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, tutt’ora impegnata nella lotta per la difesa dei diritti del fratello.