Un mattina qualsiasi di un giorno qualunque. Viaggio in treno, da pendolare, dalla città in cui vivo a quella dove vado ad insegnare. Pendolare e precaria, penso a queste due scelte di vita che connotano un movimento perennemente in oscillazione, in equilibrio. Il senso di sospensione e attesa che conosciamo bene noi giovani sono le stesse che prova un viaggiatore esperto: rincorriamo le certezze verso un futuro ignoto.
Si sale su un treno, sperando sia quello giusto, ci si siede e si percorre un tratto di strada. Un inizio, ed una fine. No, non è così. Il nostro movimento non è fatto solo da queste due polarità, non c’è linearità nel tragitto e le tappe possono essere molteplici. Kavafis ci direbbe che il bello del viaggio è il viaggio stesso, ci augurerebbe di farlo durare più a lungo possibile per fare esperienze, incontrare persone, crescere, gustare la vita attraverso le contraddizioni del mondo che portano bellezza, magia, delusione, amore, rabbia. Ma vita! Ci augurerebbe di lasciarci alle spalle una gran quantità di cose apprese, anche tanti mostri affrontati e vinti. E poi, ci direbbe di iniziare a provare nostalgia per la nostra Itaca, per la meta…per il nostro obiettivo.
Come il pendolare, che sale sul treno diretto verso la sua meta, che fa esperienze ogni volta diverse, noi dovremmo essere capaci di rendere tutto una lezione di vita. Prendere dal nostro vicino di posto sul treno un’emozione – anche negativa – e trasformarla in domanda: questa persona cosa mi sta insegnando?
Ci lamentiamo della scomodità dei nostri treni, perennemente in ritardo e tragicamente sporchi…pensiamo mai davvero che c’è gente che un treno, invece, non l’ha preso mai né sa cosa sia…oppure che non lo prende perché non può permetterselo?
Riflettiamo mai davvero sul senso profondo di quello che abbiamo, facendo tesoro anche delle cose negative che – il più delle volte, se ben lette – sono le maestre (di vita) più sapienti? Credo di no. Ci limitiamo a lamentarci di questo e di quello, a rincorrere binari, sfogliare orari, incrociare coincidenze e convogli senza pensare, senza dare senso al tempo dell’attesa né a quello della corsa, senza guardare negli occhi il vicino, rintanati nel nostro piccolo spazio ad ascoltare musica, leggere o controllare il telefono.
Soli, viaggiatori solitari, indaffarati a combattere contro il tempo. Solitudini accorpate in un vagone troppo caldo di umanità mal gestita. Rari scambi di occhiate fugaci, timidi accenni a conversazioni sospese.
Arriva la stazione, scendo. Sono davvero arrivata? Il senso di tutto questo muoversi, di questo andare perde significato, assume la rarefazione dell’abitudine quotidiana. Le azioni che facciamo ripetitivamente, che nemmeno ci fanno accorgere di ciò che proviamo dentro, di quello che ci sta comunicando il nostro corpo non arricchiscono.
Trovare forme nuove, questo dovrebbe essere il senso. Come incrociare gli occhi di chi ci passa/siede davanti e fare un sorriso. Un altro pendolare, un’altra vita che si sposta, una storia da raccontare.
(foto di copertina Steve McCurry, Taj Mahal & Train)