di Massimo Lavena – Come ogni estate, tutte le estati: Cala Muranda si riempiva all’inverosimile. Niente da fare per chi, in maniera estemporanea, confidava nella speranza di riuscire a bagnarsi nelle acque turchesi smeraldine della famosa cala, vicina alle antiche miniere d’argento di Babbomorto.
Ma non era più come prima, quando la piccola meraviglia venne scoperta dai naturisti svizzeri e tedeschi negli anni in cui il turismo era ancora una cosa per pochi eletti. L’acqua, a Cala Muranda godeva dei riflessi che venivano dal fondale, ricco di scarti metalliferi che risalivano alla notte dei tempi, sin da quando le prime miniere vennero aperte in epoca tardo nuragica con i fenici che furono abili a iniziare commerci fruttuosi.
Anche solo pensare di arrivare all’arenile di quarzi multicolori e pietruzze con metallo era una follia. Finiti i tempi lieti in cui i ragazzini e le ragazzine dei paesi limitrofi arrivavano in bicicletta e si univano alle placide comitive di nudisti dei Cantoni o dell’Alta Franconia, intenti nei loro cruciverba e nelle loro partite a carte, incuranti per lo più del chiasso festoso della giovinezza.
Erano simpatici quei personaggi, che viaggiavano tutti sui pullmini Volkswagen attrezzati con un cucinino e un letto, se non anche con delle tende collegabili. Fatto il bagno lo sciame dei ragazzini si allontanava felice, magari arricchito da qualche succulento wurstel grigliato.
Ora non era più così, e Palmiro Tamponi non ce la faceva a vedere la sua Cala Muranda ridotta alla stregua di una qualsiasi spiaggia turistica, fatta di spiaggiole, ombrelloni finto brasiliano, chiappe debordanti con tanga stracciabudella e costumi a pinocchietto su gambucce striminzite di finti mister universo, bolsi e incartapecoriti.
Tra oli abbronzanti, doposole, al cocco, alla banana, al mango con lipo-trans-coibentanti anti età allo zirconio potenziato da sperma di quokka dell’isola di Rottnest, l’odore del mare, della rena, del vento profumato di mirto, cisto e asfodelo scomparivano: lui, Palmiro Tamponi era l’ultimo di quei giovani, uno dei pochi a non essere partito, andato via, fuggito in cerca di un futuro, un lavoro.
Magari trovato anche grazie a quei biondi signori del nord, negli anni divenuti se non amici, almeno simpatici conoscenti. Già, perché Cala Muranda ti prende, ti seduce, ti avvolge in una spira sensuale e non te ne puoi privare. Diviene come una droga, ma buona, che ogni estate ti richiama con i suoi dolci suoni di risacca, i profumi salmastri, i riflessi argentei.
Lui, Palmiro Tamponi, non era andato via, si era arrangiato, raccoglieva scarti metallici e li rivendeva, si aggirava di nascosto tra le miniere dismesse e furtava tutto quello che poteva avere un commercio.
Faceva abbastanza la fame, ma poi, d’estate, riusciva a piazzare un picco, un elmetto con lampada funzionante, magari una piccola pepita argentea o una coppia di scarponi da minatore: i nudisti tedeschi, molti dei quali provenienti da zone minerarie, sapevano riconoscere il valore degli oggetti memorabili che Palmiro Tamponi gli proponeva e lo ricompensavano bene.
Iniziò un commercio anche durante l’inverno, via posta, e riuscì negli anni anche a costruirsi una casa. Era bello Palmiro, nella sua durezza scavata dal vento e forgiata dalla salsedine: ché lui a Cala Muranda ci andava anche d’inverno, quando il mare è più cattivo, ma nei giorni di sole l’acqua si scalda grazie anche all’effetto specchio delle rocce metalliche del fondale. E l’insenatura era sua, e prima anche dei suoi amici e delle sue amiche. Ora era solo. Ora non ci andava più, no.
Quell’estate aveva deciso di passare all’azione.
E fu così che acquistò un pentolone di ghisa francese ed una cucina trasportabile con un fornello militare. Arrivò presto quella mattina di ferragosto, ma Cala Muranda era già stata conquistata. Orde sudaticce di tette volgari e pance birrose, puzzo di piscio e vomito, brutti jeepponi parcheggiati sulla sabbia, i finti ombrelloni brasiliani e loro, gli animatori con le canzoncine a tutto volume e gli occhiali pirotecnici.
Fermò il suo onusto Leoncino OM del 1952, con l’originale colorazione grigio topo ed i fari a gemma, all’imboccatura dello sterrato che conduceva a Cala Muranda ed abbassò la sponda lato conducente. La guida a destra tipica di quel modello era comodissima per fare le manovre e il cassone si aprì proprio verso la spiaggia. Saranno stati circa 700 metri, ed un lieve vento di levante soffiava giusto verso la spiaggia.
Sollevato un tendaggio liberò al sole il fornello militare, con le bombole e la pentolona di ghisa francese arancione. Calcato lo starter, una fiamma azzurra e potente iniziò subito a scaldare il contenuto della pentola: era uno stufato di chili piccante con cipolle, peperoni, pomodori freschi e carote. Senza fagioli, troppo pesante d’estate. La carne era quella di due pecore spolpate alla perfezione dal suo amico pastore Basilio, che lo aiutò anche a spolpare uno degli animatori che ammorbavano la spiaggia con le loro canzoncine idiote in ritmi simil caraibici.
Palmiro Tamponi gli aveva dato un passaggio la sera prima e forse non gli avrebbe neanche fatto del male se quegli non gli avesse chiesto dove avrebbe potuto comprare dell’ecstasi per una festa in spiaggia. Palmiro frenò di botto e quello sventurato volò contro il montante centrale dei vetri anteriori del Leoncino. Palmiro non gli lasciò dire nulla. Aprì lo sportello, lo scaraventò giù intontito e dolorante e lo investì una due tre quattro volte. Sentiva il rumore delle ossa che si rompevano, polverizzavano sotto gli pneumatici. Prese un sacco da lavoro che aveva nel cassone e ce lo mise dentro. Versò dell’acqua sopra una pozzetta di sangue e umori vari e si avviò dall’amico Basilio.
Basilio non chiese niente e fu lui che ebbe l’idea di ripetere una sequenza di “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, nel quale il cattivo di turno finisce stracotto con salse varie e poi trasformato in barbecue ed offerto a tutti, compreso al poliziotto che indaga. Palmiro Tamponi fu fulminato dall’idea di Basilio.
Basilio non sapeva nuotare, ma era un eccezionale conoscitore del territorio. Mentre Palmiro lavava il cadavere ed iniziava lentamente a scuoiarlo, il pastore si allontanò qualche minuto ritornando con vari rami di mirto, ginepro, corbezzolo e lentischio. Si mise di buzzo buono a scannare il morto e quindi iniziò a tagliarlo a pezzettoni. Prima i muscoli, poi la pancia, poi la costata, tutta la zona dorsale, la culatta e via dicendo con una perizia ed una rapidità invidiabili. Palmiro era ammirato dell’arte del suo fraterno amico, che era contento perché grazie alla manovra massaggiante delle ruote del leoncino, la carne era già frollata per bene, tenera e ben lavorabile. Terminato il lavoro sul morto, i due amici iniziarono a macellare le due pecore.
Alle prime luci dell’alba la carne era stata doverosamente mischiata e lasciata a marinare con abbondante cannonau, sale ed erbe aromatiche. Ai resti dell’improvvido animatore ci avrebbero pensato i cinghiali e i maiali selvatici della zona oltre a alcune coppie di grifoni reintrodotti nella zona che avrebbero sicuramente gradito l’offerta inaspettata.
Mentre il succulento chili di carni miste borbottava allegro e le bolle scoppiettavano felici, iniziando a spandere nell’aria i vari odori vinosi, di macchia mediterranea e di sapori selvaggi, l’inquietante presenza dei grifoni rese felice Palmiro Tamponi: quel giorno, comunque, tutto sarebbe cambiato. La carne cuoceva e lui era pronto. Aggiunse abbondante polpa di Pomo di Sodoma, che somiglia al pomodoro verde, ma è altamente tossico, e numerose manciate di semi di Stramonio, meravigliosamente ricchi di sostanze altamente tossiche ed allucinogene che in alte dosi portano alla morte. Nel dubbio il condimento alternativo non bastasse, Palmiro Tamponi disciolse nel sugo gorgogliante alcune pastiglie di ecstasi che il misero tapino aveva in tasca. Un giusto rinforzino per l’abbisogna. Arrivò anche Basilio, con delle forme di pane casareccio che aveva cotto lui e foglie di fico lavate da usare come piatti. Ah, giusto, le foglie di fico sono altamente urticanti.

Il voluttuoso e penetrante profumo che proveniva dalla pentola, trasportato dal levantino, raggiunse la spiaggia andando a solleticare rapidamente le terminazioni nervose del piacere e la salivazione dei bagnanti. Chi era in acqua usciva e seguiva la scia odorosa, grassa, panciuta, carnale. Chi era sdraiato a rosolarsi al sole sentiva lo stomaco chieder pietà e come per un incredibile accordo una lenta fila di persone umidicce si indirizzarono verso quel lontano camioncino che pareva esser la fonte del desiderio.
Il menù prevedeva una abbondante porzione di stufato al chili corretto, servito sulle foglie di fico, una fetta di pane e un bicchiere di vino rosso su base carignano. Il tutto per dieci euro a porzione. Non sembrava vero ai bagnanti: che bontà, che delizia, che potenza, che carne strana, dolciastra e aromatica, ma buona, stracotta, si scioglie in bocca, e poi il pane fresco, e il vino, ahhhhh soldi ben spesi, e poi il piccante e questa sensazione come di aver mangiato qualcosa di unico, straordinario, indimenticabile, finale.
Basilio guardava dal cassone le persone che si allontanavano tornando verso il mare mentre Palmiro Tamponi contava i soldi e spegneva il fornello.
Basilio richiamò l’attenzione dell’amico: verso la spiaggia succedeva qualcosa. C’era chi urlava, chi si contorceva, chi stramazzava a terra, chi usava l’asta dell’ombrellone come una lancia. Una immensa rissa era in atto, con atti di violenza feroci mentre alcuni venivano schiacciati dai fuoristrada che qualcuno cercava disperatamente di guidare; diversi si spegnevano nei miasmi e nel dolore atroce addominale, con le mani ustionate e le bocche arse.
Il sole a picco friggeva i cervelli e spingeva in molti a buttarsi in acqua per sanare il caldo e trovare refrigerio, ma senza forze e in preda ad allucinazioni violente il mare li prendeva per sempre. Una vendetta totale si compì. Quando alcuni più forti tra i bagnanti cercarono di tornare verso il Leoncino OM per chiedere cosa ci fosse di così spaventoso in quello stufato si resero conto che del camioncino non vi era più traccia. Giusto in tempo per stramazzare esanimi nella polvere.
Palmiro Tamponi regalò a Basilio la pentolona di ghisa arancione e il cucinino semovente con il fornello militare; gli lasciò tutti i soldi guadagnati con lo stufato (circa 3mila euro), anche per risarcirgli le due pecore macellate e i 50 litri di vino della sua riserva. Per qualche giorno stettero insieme all’ovile. Si salutarono certi che non si sarebbero più incontrati.
Dopodiché Palmiro Tamponi ripassò davanti alla strada per Cala Muranda e si fermò un secondo. La pace tremenda che vi aveva portato quasi lo sorprese., ma non provò nessuna pietà. Acceso il motore del Leoncino OM si allontanò senza voltarsi, sorridendo all’idea che Cala Muranda, la sua Cala Muranda, era tornata libera, rispettata.
Chissà, di lì a qualche anno, in futuro, nuovi ragazzi e ragazze dei paesi vicini torneranno a farci il bagno allegri, senza problemi, e magari anche qualche turista del Nord, con il suo pullmino Volkswagen, potrà godere del riflesso del fondale metallifero, tra le acque turchese smeraldo.
E lui, Palmiro Tamponi, magari, passerà di lì per caso, e si tufferà un’ultima volta.