(di Margherita Vetrano) – La nuova rivisitazione di “Piccole donne”, il classico di Louise May Alcott, per la regia di Greta Gerwig, è un’opera davvero sorprendente.
Attrice, regista e sceneggiatrice, la Gerwig porta nelle sale
una versione innovativa, grazie ad una brillante sceneggiatura che raccorda “Piccole donne” con “Piccole donne crescono” attraverso una serie di flashback e flashforward.
Ci voleva una donna alla regia per far esplodere tutto il potenziale del romanzo, anche sullo schermo. Struggente, malinconico, profondo, un film attualissimo pur raccontando la stessa storia, senza travolgerla.

Jo March, trasferita a New York, viene richiamata al capezzale della sorella Beth, gravemente malata.
Il ritorno a casa la riporterà indietro nel tempo, ai ricordi d’infanzia, ad una vita lieve e gioiosa, ad un’altra sé.
L’esplosione di ricordi, incastonati nella vita reale, innescheranno un viaggio introspettivo, un’evoluzione alla quale tentava di sfuggire.

La scomposizione letteraria del testo fa emergere con prepotenza il forte aspetto evolutivo dei personaggi, sullo scenario di un’America che cambia, di un mondo in evoluzione.
Mai come in questa ricostruzione l’elemento nostalgico prevale sulla vicenda che acquisisce ulteriore spessore, liberandosi della patina edulcorata appartenuta alle precedenti versioni.
Dimenticando le trine e i merletti infantili delle versione del ’33 e del ’49, gli sbadigli del ’94, l’arcaica mise en place del ’18 e lo stravolgimento dell’edizione del secolo dopo, la rappresentazione sobria ed asciutta di quest’ultimo “Piccole donne” fa emergere il valore dello scritto originale.
Il raffronto degli eventi, attraverso la strategica ricostruzione di scene analoghe, consente di apprezzare i sentimenti contrastanti filtrati dalla trasformazione dei personaggi. L’irruenza infantile è soppiantata dalla rabbia adulta, e l’impertinenza dalla saggezza.
Tutti i personaggi mutano, provati dagli eventi e l’ingenuità perduta scopre le ferite di donne che soffrono una condizione imposta.
Ogni donna ha un diverso carattere e un diverso modo di adattarsi alla società, mantenendo dentro un fuoco pronto a riaccendersi appena se ne presenti l’opportunità.
La potenza del romanzo romantico mantiene il suo fascino negli struggimenti d’amore e nei sentimenti soffocati ma si evolve in un guizzo finale laddove tutto sembra perduto.
Jo rimane il personaggio cruciale, fil rouge della femminilità dell’epoca che si afferma nel momento in cui accetta il cambiamento ed impegna le sue energie in una lotta sociale, non più nel vano sforzo di rimanere ancorata al passato.
Panta rei nel bene e nel male; lasciar andare le cose è l’unico modo per scoprire cosa ci riserva il futuro, anche se il passaggio può essere doloroso.
Fondamentale il ruolo narrativo della fotografia che segue gli stati d’animo e l’età dei personaggi, diventando personaggio essa stessa: ora brillante e solare, ora cupa e gelida. Di forte supporto il montaggio che mantiene un ottimo ritmo pur mantenendo il focus sulla vicenda.
Valide la ricostruzione storica e la scelta del cast. Una godibilissima Meryl Streep, sempre più a suo agio e meno attrice che mai, ci regala una zia March da antologia.
Laura Dern fa emergere per la prima volta una Marmee March battagliera e appassionata, un’antesignana Jo, piegata dalla vita ma ancora indomita. Timothee Chalamet descrive finalmente un Laurie un pò più bohemiene e meno birbante e finalmente, anche il Signor Laurence riesce a trasmettere di avere un cuore.
Un vero piacere poter rispolverare i classici e continuare a rimanerne sorpresi.
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