Se è vero che un certo tipo di letteratura deve scuotere, turbare gli animi, un merito di sicuro “Etica dell’acquario” dell’esordiente Ilaria Gaspari (Voland) ce l’ha: il personaggio principale, Gaia, giovane trentenne ricca, bella e infelice, è sicuramente irritante.
Irritante per chi, ed è un semplice punto di vista, vorrebbe leggere libri sulla società italiana per quella che è al momento attuale, con il 40% dei giovani che non riescono a trovare lavoro a causa della crisi e sono costretti a sprecare talenti in un’inutilità fallimentare, in lavoretti inadeguati al loro livello di preparazione o ad emigrare.
Invece no, le scelte editoriali anche stavolta hanno deciso di raccontare la vita delle élite, di quell’alta borghesia che manda i propri rampolli nelle scuole cattoliche, nelle università prestigiose o private, fino a rivelare le perversioni e le ossessioni di queste riserve indiane che, nonostante ciò, ingrosseranno le fila di quella che sarà, ahimè, la futura classe dirigente e gli esponenti intellettuali di spicco del Paese .
Sono i giovani con condizioni di partenza economicamente vantaggiose che non devono faticare per trovare opportunità lavorative e farsi strada perché partono già in alto o i loro genitori hanno amici influenti. Al massimo hanno dovuto sudare grosso sui libri di questi collegi esclusivi, come in questo caso la Scuola Normale di Pisa, un microcosmo perverso e complesso fatto di soldi, strategie, competizione e condizionamenti. Dove tutti i ventenni che lì studiano sono costretti a imbruttire, dimagrire, avvilire anche nell’animo, pur di portare a casa a fine ciclo una imprescindibile laurea con lode.
L’acquario di pesci orribili e cannibali è la metafora della scuola e il racconto della vita e delle squallide dinamiche di relazione che si stabiliscono all’interno è sicuramente ben scritto e descritto. Certo, un libro che ne svela i retroscena è curioso e appetibile, se non per certi versi giusto. Però è un dejà vu.
Gaia si rende antipatica per il modo in cui usa il potere della vanità per creare infelicità dentro e intorno a sé. Le classiche nevrosi che dimostrano quanto “anche i ricchi piangono” pur non avendo obiettivamente motivi per farlo, perché tutto il mondo, la gioventù, gli amori, il futuro, sono lì, alla loro portata. Eppure no, Gaia si crea il proprio circuito vizioso di maledizione, avviluppata com’è tra sensi di colpa e suicidi di compagni non chiari e non risolti, di cui si sente più o meno indirettamente responsabile.
La storia scorre tra i ricordi dei ventenni nell’acquario della Normale di Pisa e il mistero dell’oggi, quindici anni dopo, che ruota intorno alla morte di Virginia, stalker della protagonista (che ora ha 35 anni), insieme agli altri tre amici tornati per sostenerla: adesso Gaia rischia davvero guai seri, perfino con la giustizia. E se prima rinnega l’amore di Marcello, poi quando lo ritrova è diventato impossibile e riesce solo a vivere una momentanea illusione di felicità.
La confessione finale non redime nessuno, lascia solo il senso dell’ineluttabilità di un destino che questa giovane donna, nonostante sia oramai cresciuta e debba aver imparato dai suoi errori, non riconosce ancora essere nelle sue mani. Perché, soprattutto, non riesce a sentire il suo cuore.
Una sensazione amara rimane, a libro chiuso: tanti giovani e talentuosi scrittori sono purtroppo costretti ad una vita sotterranea e un po’ bohémienne solo perché non hanno i contatti o le occasioni giuste. E gli sfondi delle loro storie non soddisfano, forse, i criteri e i gusti momentanei del mercato.
A prescindere dalla Voland, che ha comunque il merito di aver lanciato personaggi originali e geniali come Amelie Nothomb e di scegliere con particolare cura la dimensione del romanzo breve e incisivo, sarebbe bello se le case editrici italiane grandi e medie creassero più casi letterari con le vite delle persone comuni, quelle che sbarcano eroicamente il lunario con 1000 euro al mese o magari un salario non ce l’hanno proprio. O al contrario, che cercassero storie coraggiose e innovative, fuori dall’ordinario.
Le vite dei (pochi) ricchi italiani non ci interessano molto, se sono così tristi.