di Massimo Lavena – Quando usciva, il signor Carlo, era semplicemente, sempre, ovunque e comunque il signor Carlo. Che fosse il fruttivendolo, il droghiere, il macellaio lui era il signor Carlo: uguale ed indistinto per tutti e con tutti.
Don Gualberto, rampollo di nobile speme, che mollò tutto per andare in missione tra gli indios Yanomami, il signor Carlo lo conosceva forse un po’ di più: erano stati insieme a scuola al liceo, e dopo essere tornato rimase sorpreso perché anche il confessionale lo accoglieva come un semplice signor Carlo qualunque.
“Eppure anche i confessionali parlano più di te, Carlo, dai, ma cosa ti è successo in questi anni, ma ti ricordi le partite di pallone, le ragazze, il tabarin, dai le nostre meravigliose canne?”. Sì, le ragazze andavano tutte con Gualberto e gli altri, e lui a tenere bordone. Le canne poi, fatte con il basilico e la mentuccia, che se la mamma lo avesse scoperto, Gualberto volava rapido dalla finestra. Il signor Carlo, no, lui le canne se le faceva davvero.

Aveva scoperto, il signor Carlo, un giro di ragazzi e ragazze che stava fuori dall’oratorio dove cercava inutilmente di fare l’animatore del gruppo giovanile di Padre Pio.
Gli piaceva la musica che ascoltavano, “No uomannocraiii” e poi c’era pure quello al quale spararono, poverino, Peter Tosh. Quei ragazzi e quelle ragazze erano lì come se aspettassero lui, ed un giorno il vento gli condusse su per il naso quell’aroma forte e dolce che lui seguì come attratto da una forza misteriosa.
Il suo monocromatismo beige faceva a cazzotti con i colori potenti dei ragazzi e delle ragazze che trovandoselo di fronte lo salutarono dicendogli “Ciccio vuoi del fumo?” ed il giovane Carlo, che era solo ancora potenzialmente “il signor Carlo” ma con delle prospettive di diventarlo molto serie, accondiscese.
Mai fumato, figlio di non fumatori, prese tra le dita la morbida sigaretta artigianale, in effetti panciuta e umidiccia, e con la titubanza di chi si trovava per la prima volta a far qualcosa cadendo nell’ignoto, avvicinò le labbra.
“Non è mica una ragazza, aspira dai” fu l’invito che ricevette.
E il giovane Carlo tirò giù una boccata ricca di fumo caldo, morbido, oleoso, dolce e profumato. Ma ne tirò troppo e le gambe gli cedettero. Cascò sulla panchina ma nessuno tra i ragazzi e le ragazze si mise a ridere, anzi, lo osservavano sereni, vedendo il suo volto rilassarsi piano piano.
Non ricorda molto altro, oggi, il signor Carlo, di quel pomeriggio. Ma questo ricordo richiamatogli da Don Gualberto lo scosse.
Allungò il passo andando via dalla chiesa dopo aver mandato gentilmente a quel paese il suo amico sacerdote che lo osservava divertito dalla spondina del confessionale. Si guardò riflesso sui vetri del brutto portone in alluminio anodizzato della chiesa e si vide forse per la prima volta com’era da tanti, troppi anni: vestito di beige. Anche le scarpe erano beige, anche l’incarnato sembrava – era – beige.
Lui salutava e gli altri cosa vedevano? Un punto beige. Ma lui, lui adesso aveva di nuovo nelle narici quell’aroma stupendo, ora tutto doveva cambiare, tutto il tempo del mondo era per lui.
Cominciò a girare senza meta guardando in alto, accorgendosi dei colori della sua città, dei giovani, delle tette delle ragazze sotto le magliettine aderenti, dei nuovi modelli di auto, dei palazzi in costruzione, e annusava, annusava tutto compulsivamente, senza tregua.
Si ricordò che sotto i portici c’erano dei ragazzi fuoridaltempo coi bonghi e con passo svelto li cercò: “Che vuoi nonno?” e lui con fare sicuro disse “Hai del fumo buono?” facendo scoppiare in una fragorosa risata i ragazzi che continuarono a suonare domandandosi da dove uscisse quello strano essere beige. E in men che non si dica un po’ di infiorescenze di Marja finirono in un sacchettino con alcune cartine.
Vide un barbiere, entrò e si fece tagliare i capelli: chiese un taglio corto, elegante ma semplice, con una scriminatura lieve e la sfumatura nelle tempie. Entrò dopo anni in un negozio di vestiti e già il commesso gli stava porgendo un completo a tre bottoni beige.
Con piglio ieratico il dito del signor Carlo puntò verso un meraviglioso doppiopetto blu di Prussia in velluto rasato con abbinati pantaloni a due pinces caraibiche, con camicia ton sur ton
ed un paio di splendidi mocassini bordeaux di quelli con la suola a puntini con abbinata cravatta un seta a trama spigata metallescente sempre dl color sangue francese.
Era bellissimo. Uscì per strada ma mancava ancora qualche cosa. Che lui sapeva dove trovare. Ma nel frattempo chi lo incontrava stentava a capire chi fosse: perché il signor Carlo che non esisteva prima non esisteva neanche ora, ora c’era una nuova figura blu, coi capelli belli e le scarpe con la suola a puntini che attirava l’attenzione.
Mancava qualche cosa. Che lui sapeva dove trovare e che forse non aveva mai voluto cercare. Arrivò davanti casa sua e c’era il fioraio ancora aperto: “Buonasera signor Carlo, che bello il vestito, si sposa?” e scoppiò in una fragorosa risata. Anche il signor Carlo si mise a ridere e gli rispose con un “forse…” sommesso.
In quel momento si accorse che intorno a sé c’erano tante persone che lo guardavano e lo salutavano ma lui non sapeva se ci fossero o non ci fossero, c’era il macellaio, c’era il postino, che lo salutavano sempre, c’era il giornalaio che gli dava sempre i fascicoli dell’enciclopedia della Storia, c’era la signora Clara del primo piano: già, la signora Clara del primo piano che quando preparava il brasato al barolo gliene portava sempre due porzioni, sperando di mangiarle insieme.
“Voglio un mazzo di rose rosse, per favore”. Undici signor Carlo, come i gradini del primo piano. Come sta bene quel mazzo di rose sul doppiopetto blu di Prussia, signor Carlo. E magari piaceranno molto alla signora Clara. E magari, poi si faranno anche non solo una bella fumatina.
E magari eh, chissà signor Carlo.