di Filippo Bocci – È ancora possibile, dopo averne tanto parlato, scrivere di Aldo Moro e di che cosa il suo assassinio abbia significato per le vicende politiche della nostra nazione? Certamente sì, se l’intenzione è quella di rileggere gli avvenimenti con ancora la voglia di capire, senza la pretesa di dare sentenze, e se il metodo usato è la maieutica del ragionamento dialogico, che a sua volta produce altre riflessioni e le moltiplica.
È l’approccio corretto, forse l’unico possibile, scelto da Walter Veltroni nel suo Il caso Moro e la Prima Repubblica, Solferino editore, dove pagina su pagina l’autore si interroga in prima persona, si lascia attraversare da dubbi e domande, le stesse che rivolge ai protagonisti del periodo che copre circa quindici anni, da quella primavera del 1978 fino a Mani Pulite, passando per lo spartiacque del 1989 con il crollo del Muro di Berlino.
Il libro è composto da una serie di recenti interviste realizzate dallo stesso Veltroni ai politici dell’epoca – solo la prima, del 1993, al brigatista Prospero Gallinari – e la prospettiva è quella, pregevole, dello storico. Le domande che Veltroni porge ai suoi interlocutori provano infatti a creare collegamenti, a rievocare episodi e sentimenti di quegli anni difficili e pericolosi per la tenuta democratica del nostro paese, attraverso quella che potremmo definire un’ermeneutica delle emozioni.
E se i fatti sono ormai conosciuti e cristallizzati nel tempo, questa narrazione è piena tuttavia di toccanti ricordi, e molti rimpianti. Se ne ricava quanto il disegno politico di Moro – avviare il paese ad una sana democrazia dell’alternanza attraverso la solidarietà nazionale con il Pci di Enrico Berlinguer – in piena Guerra fredda fosse inviso sia agli Stati Uniti che all’Unione Sovietica. Dietro alla lotta armata delle Brigate rosse ci sarebbero stati interessi diversi che miravano alla tragica soluzione del caso. Veltroni ricorda le parole pronunciate in Parlamento da Corrado Guerzoni, uno dei più stretti collaboratori di Moro:
“Nessuno ha avuto interesse a trovare l’onorevole Moro, il presidente della Dc interessava morto anche da quest’altra parte, perché è meglio che muoia un uomo e nessuna cosa cambi piuttosto che quest’uomo non muoia e tutto debba cambiare. La morte di Moro è il Muro di Berlino dell’Italia dieci anni prima della caduta del vero Muro di Berlino”.
Ecco allora spiegato perché i covi dei terroristi, in primis la prigione dello statista democristiano, forse non si sono voluti trovare; ecco i motivi della presenza di consulenti che apertamente dicono che Moro doveva morire; e poi i depistaggi, via Gradoli, il lago della Duchessa, cose che tutti sappiamo. Ma la curiosità dell’autore e la forza delle sue domande spingono i protagonisti ad andare oltre la cronaca, verso una narrazione molto personale, quasi intima, che ha il tono della familiarità e della confidenza.
È l’occasione per fissare valutazioni e convinzioni: da Rino Formica che spiega la sostanziale, naturale differenza tra i terrorismi, altrettanto sanguinari, di destra e di sinistra; ad Aldo Tortorella per il quale “la libertà politica non è tutto, esiste una dimensione maggiore: la libertà interiore”; a Virginio Rognoni, oggi rassegnato “a questo Paese che pare si accontenti di uomini casuali”; a Beppe Pisanu, che ricorda quando Moro “parlava della Costituente con una nostalgia da innamorato”.
E poi c’è Claudio Signorile, che ancora cerca di spiegarsi i comportamenti in quei cinquantacinque giorni di Francesco Cossiga, allora ministro degli Interni. E ci sono Achille Occhetto e Claudio Martelli e la loro analisi di quella che avrebbe potuto essere in quegli anni l’unità del centrosinistra, e non è stata. E bello, e pudico, è il ricordo fatto dallo stesso Martelli di Bettino Craxi malato e della sua voce “così stanca”, per una vicenda umana che sarebbe da ripensare e ricomporre. È ancora forte la sua passione di innamorato della politica nel dire che “no, io non penso che sia finito, il socialismo. Dedicherò quel che mi resta da vivere per dimostrarlo. È stato un errore credere alla storia della fine delle ideologie, bubbola inventata dal pensiero unico”.
E suonano autentiche le parole di Emma Bonino che rimarca l’onestà intellettuale dei radicali nel chiedere scusa al presidente Giovanni Leone costretto ingiustamente a dimettersi, altra illustre vittima politica di quei momenti. Come pieni di dignità e delicatezza sono i suoi ricordi di due figure coraggiose come Adelaide Aglietta ed Enzo Tortora.

Walter Veltroni apre questa silloge con un suo saggio in cui orienta la chiave di lettura, anticipa le conclusioni, con un lavoro di concertazione lega, quasi suggerisce, parole idee concetti emozioni. E proprio fortissima è l’emozione che si coglie nella “difficile” intervista a Prospero Gallinari che invano Veltroni invita, insistente, a svelare gli ultimi momenti della vita di Moro come una sorta di dovere morale. Alla fine del colloquio dirà:
“Ci siamo detti molto, ci divide qualcosa di profondo, una concezione del valore della vita e della morte”.
È la temperie di quegli anni, che tanto ci parlano dei nostri, raccolta in questo libro pieno di passione, scritto da un innamorato della politica.