di Claudia Babudri – Giovanni Arnolfini era un facoltoso commerciante lucchese stabilitosi nelle Fiandre. Nel 1434 posò con la moglie per il maestro belga Jan Van Eyck, ammiratore della poetica del Masaccio, dando vita ad un capolavoro: il Ritratto dei coniugi Arnolfini.
Mentre Masaccio era interessato a cogliere l’essenza delle cose in una unitaria visione prospettica, Van Eyck procedeva per analisi attraverso sapienti velature di colore. Osservando il Ritratto dei coniugi Arnolfini, lo spazio diventa sovrano: l’orizzonte alto, tipico della pittura fiamminga, comprende anche chi guarda come se fosse dentro la scena. La presenza di finestre illumina il dipinto, unificando il lontano e il vicino, moltiplicando ombre e riflessi, differenziando le superfici degli oggetti.
Ma quale messaggio vuole comunicare questa opera?
“Volendo adottare una terminologia rigorosa […] dobbiamo distinguere tre gradi di soggetto o di significato, dei quali il primo è comunemente confuso con la forma e il secondo è il campo specifico dell’iconografia contrapposta all’iconologia. Ad ognuno di questi gradi, le nostre identificazioni ed interpretazioni dipenderanno dalla nostra soggettiva attrezzatura e proprio per questo dovranno essere integrate e corrette da uno studio dei processi storici il cui insieme può essere chiamato tradizione.”
Servendoci di questa breve frase di Erwin Panofsky, celebre storico dell’arte del Novecento, passiamo all’analisi dell’opera, condotta attraverso tre livelli.
Ad un primo, detto “del soggetto primario”, ascriviamo tutti gli elementi presenti nella raffigurazione (uomo, donna, cane, specchio).
Il secondo livello interesserà le modalità in cui si esprimono temi e concetti trattati. In questo caso, il ritratto della famiglia Arnolfini suggerisce solennità, ricchezza, opulenza.
Non si tratta di un semplice ritratto: è il testamento che Giovanni vuole lasciare alla sua discendenza, attestando l’importanza della sua famiglia.
Infine, il terzo livello, il più aulico per il Panofsky, colloca il contenuto alla cultura, alla filosofia, alla religione di una società.
In questo caso il contenuto si individua nel ruolo sociale ed economico della famiglia Arnolfini e soprattutto nel ruolo del matrimonio nella società fiamminga del Quattrocento.
Giovanni, aulico esponente della borghesia commerciale, è un italiano d’ingegno riuscito a dominare il commercio internazionale, stabilendosi nei Paesi Bassi. I suoi affari sono ricordati dal lussuoso tappeto e dalla costosa vetrata ad “occhi di bue” ritratti da Van Eyck .
Giovanni, uomo d’affari ma anche marito e futuro padre.
Nell’opera è ritratto nell’atto del giuramento matrimoniale. La moglie l’osserva devota, accarezzandosi il ventre gravido.
Entrambi i coniugi sono scalzi: si sottolinea la sacralità e la ritualità del giuramento, sancito dalla presenza della grazia divina (l’unica candela accesa) e del rosario.
Di solito, gli sposi lo regalavano alle future mogli, i cui impegni casalinghi si esprimono attraverso la piccola scopa, forse rimando a Marta di Betania , sorella di Maria e di Lazzaro, protettrice delle casalinghe e dell’ambiente domestico.
Sul nascituro veglia la statuina di Santa Margherita scolpita nel legno della spalliera del talamo. Il cagnolino è il simbolo della fedeltà, panacea contro il peccato originale (le mele sulla cassapanca). Tale peccato è annullato dalla Passione di Cristo, raffigurata nelle dieci scene della cornice dello specchio, simbolo di purezza. In quest’ultimo sono riflessi anche i testimoni dei due sposi.
Attraverso questa descrizione simbolica, possiamo comprendere la mentalità della società quattrocentesca nella quale l’uomo e la donna erano posti in rigidi ruoli familiari e sociali, oggetto di studi e approfondimenti da parte dei dotti.
Sulle regole matrimoniali scrisse nel 1403 il cardinale domenicano Giovanni Dominici con la Regola del governo di cura familiare dedicato a Bartolomea degli Alberti.
Intorno al 1450, il discepolo del Dominici, l’arcivescovo di Firenze Antonino Pierozzi, compose l’Opera a ben vivere destinata alla ricca Dianora Tornabuoni. Infine, il francescano Cherubino da Spoleto vergò la Regola della vita matrimoniale mentre, intorno al 1470 , Giovanni il Certosino scrisse la Gloriam mulierum.
Tutte queste opere, scritte in volgare, ripetevano gli stessi concetti: l’elogio del matrimonio, della famiglia, la definizione della funzione dei coniugi in particolare della donna.
Leon Battista Alberti, nella seconda metà del Quattrocento, chiarisce meglio i doveri e i compiti degli sposi nei Quattro libri della famiglia, descrivendone il modello borghese per eccellenza: mentre al marito è demandata la gestione economica della casa, alle mogli è destinata la cura del focolare.
Le spose dovranno essere sempre devote e impeccabili, risolute nel generare un erede per perpetrare il lignaggio. Il modello che la sposa dovrà seguire sarà quello biblico di Sara, moglie di Tobia, donna obbediente, devota e casta. Infine, ai figli spetterà obbedienza ed educazione veicolate attraverso l’autorità genitoriale.