di Massimo Lavena – Claudia Portale è una giovane artista che spazia con la medesima grazia dal canto alla danza, passando lieve alla recitazione teatrale e cinematografica.
Figlia di un mix di culture ed esperienze, usa il suo corpo e la sua voce come veri strumenti espressivi, sia quando si fa trasportare dalle interazioni di gesto e parola del tango, sia quando recita un testo su un palco.
Claudia è stata una delle artiste che ha animato con i suoi set l’evento “L’Arte della bellezza“, organizzato a Roma lo scorso 10 giugno da B-hop magazine per sostenere i progetti e le attività redazionali, improntate al giornalismo costruttivo e alla ricerca di belle storie e notizie. L’evento si è svolto nei locali di Ultrablu, uno spazio che promuove attività artistiche e culturali dove lavorano insieme artisti con neurodivergenze, disturbi dello spettro autistico o senza problemi, dando rilevanza alla apparente diversità come una risorsa naturale e relazionale specifica dell’essere umano.

Balli, canti, reciti, sei stata speaker radiofonica: cosa ti manca per dirti “ora sono completa?
Ho iniziato il mio percorso, nessuno lo sospetterebbe, ballando, perché i miei facevano ballo da competizione e mi avevano in qualche modo contagiata con quel mondo fantastico fatto di lustrini, paillettes e piume. Poi col tempo loro si sono un po’ distaccati da quel mondo, ed io a scuola ho seguito un corso pomeridiano di canto. Il teatro è venuto in una età più matura, ecco, mentre la radio è stata un incontro inaspettato, nonostante nessuno lo avrebbe mai sospettato. La mia bisnonna aveva una sua radio. Ma nessuno pensava che io avrei potuto intraprendere anche quella strada.
Alla fine, per quanto io sia curiosa non ci sarà mai la volta in cui io possa dire, o potrò dire, “Sono completa”, perché di base amo sempre scoprire cose nuove.

La voce come strumento, la parola come seduzione: cosa vuol dire dare gioia con il canto o sapere che la tua voce è motivo di compagnia e serenità per chi la ascolta in radio o a teatro?
Ammetto che i primi anni in cui cantavo ero proprio spinta in particolar modo da mia madre, quando c’era un piano bar era sempre “Dai canta, canta, canta”, perché sapevano che dopo la prima canzone in cui diventavo bordeaux – c’è chi non crede che anche io abbia avuto le mie forme di timidezza, ce le ho anche in altre situazioni -, potevo rimanere là tutta la serata, perché rientravo un po’ nella mia zona confort. Io odio sentire la mia voce in una registrazione, sono una perfezionista con me stessa, mentre con gli altri tendo sempre a vedere il positivo del perché agiscano in un certo modo, quindi a giustificarli. Su di me pretendo molto: quindi ascoltare una mia canzone registrata o una voice off per dei cortometraggi o anche la stessa voce che si usa in radio, mi fa strano e trovo sempre dei difetti. Però il fatto che fa piacere, allieta delle situazioni, può essere una molla perché io lo possa fare. Non che io rinneghi il mio lavoro, perché io amo il mio lavoro e mi ritengo molto fortunata a farlo, però, ad esempio, se sto in teatro giustifico tutto, se invece devo cantare in una mia compagnia di amici, mi dicono “dai cantaci una canzone” ho il vuoto e davvero mi imbarazzo. Ripeto, tanti non sospettano che questo mi accada, perché io maschero bene tra battute e risate.
La bellezza di un corpo che danza, i muscoli che si flettono, le mani che volano, i piedi che scivolano e ti fanno librare: cosa è per te la corporeità e perché un corpo esprime calore, passione, forza o debolezza?
Per quanto riguarda la bellezza di un corpo parto sempre dal principio che, a prescindere da una bellezza dettata da dei canoni che, spesso, non coincidono con la realtà – dettami televisivi imposti, pensiamo a come cambiano i ragazzi con le mode -, io penso sempre che ogni corpo sia unico con i propri difetti, è proprio quello che lo rende bello. Far confluire il movimento nel canto è sempre stata una cosa involontaria che facevo. Quello che dico sempre ai ragazzi è
“Non si canta solo con la voce ma con il corpo”: ogni parte del corpo ha una sua voce che poi va a comporre la nostra voce.
Quindi è inevitabile che se uno è realmente a contatto con la musica ci siano delle vibrazioni interne che risuonino e che, in qualche modo, debbano essere espresse. Sennò è come avere una pentola a pressione e il nostro corpo ha bisogno di comunicare, io sono una di quelle persone che ha bisogno di contatto effettivo con l’altro: da come mi danno la mano mi rendo conto di chi ho di fronte. Per me il corpo è essenziale, proprio nella vita dell’essere umano, come forma di comunicazione, ovviamente rispettando sempre l’altro.

Cos’è il tango per te? Quanta bellezza e armonia si disvelano nelle sue movenze liberanti?
Il tango mi riporta indietro all’amore passato per il ballo da competizione che facevo da piccola. Il tango è una comunicazione completamente diversa. Quello argentino, in particolar modo, l’ho scoperto in età adulta e poi, trovandomi a cantare il tango di Astor Piazzolla che viene definito dai puristi un antitango. Questa cosa mi ha sempre affascinato. Noi in Italia riteniamo Piazzolla uno che fa tango: la famosa Libertango, che è una canzone di protesta, è una delle musiche più gettonate nelle pubblicità che abbiamo.
Il tango è realtà e verità.
Se penso che all’epoca spesso c’erano rappresentazioni di due uomini che ballano una sorta di combattimento, un po’ come avviene nella sfera animale, quando ci sono quegli scontri per vedere chi sarà a dominare in un determinato territorio. Quando nacque il tango era un pò così. Per ballare con le donne poi non c’erano le vere e proprie “milonghe“, ma c’erano dei bordelli. Anche la lingua del tango è una contaminazione straordinaria, viene chiamata la “lingua degli immigranti”, si tratta di un gramelot linguistico che si trova in tante canzoni, un misto di francese, tedesco, spagnolo e italiano: un mix di lingue, la più gettonata per comunicare tra stranieri.

In te c’è la fusione di tante matrici culturali e spettacolari. Cosa significa porsi all’ascolto di altre culture, afferrare stimoli nuovi, farli propri?
Io penso che noi arriviamo ad un certo punto della nostra vita in cui decidiamo che essere umano vogliamo essere su questa terra, a prescindere dal credo che ognuno di noi ha. Io spero nella mia vita di poter lasciare qualcosa, e di base ho un’onestà che mi è stata insegnata quando ero piccola: io penso che la “contaminazione con gli altri” sia un arricchimento straordinario. Spesso, e questo è anche a causa della nostra società, toglier la Storia – si parlava di toglierla dalle scuole – è un modo per creare una società di ignoranti su tutto quello che c’è stato precedentemente e ci può insegnare, affinché non facciamo più gli errori che ci sono stati. Poi siamo umani e si sbaglia ma diciamo che, nell’ultimo periodo storico e sociale che stiamo vivendo,
ci siamo dimenticati che noi eravamo un popolo di migranti, c’era il famoso tentar fortuna all’estero:
se ripenso ai racconti dei miei nonni, mio nonno siciliano andò in Svizzera perché così poteva portare da mangiare alla famiglia. Poi è tornato in Sicilia ed è venuto a Roma. Anche allora il sud veniva visto come una parte della nazione che lavorava poco e se ne approfittava. Sappiamo che c’è anche chi sostiene che l’Italia sia sino alla padania e basta, il sud non vale nulla dicono certi politici: ma in generale contaminarsi con gli altri serve. Io sono una contaminazione culturale italiana: mio papà è siciliano, la mia mamma è di origine calabrese -sarda, lei è nata a Roma, io pure. Questa è contaminazione, io mi definisco una meticcia, sono un po’ una pellaccia, e questo è un piccolo esempio: anche la miglior fusione musicale e culturale è proprio una contaminazione, contaminandoci con ciò che osserviamo che arriva dall’esterno.