(di Margherita Vetrano) – Se questa sera non sapete cosa vedere, potreste recuperare un film dalla scorsa stagione cinematografica: “C’era una volta a Hollywood” di Quentin Tarantino.
Uscito nel 2019, “C’era una volta a Hollywood” narra la storia di un attore in declino e del suo stuntman.
Insieme affrontano il cambiamento di Hollywood; dai fasti degli anni Cinquanta al “rimpasto” dei ’70.

Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), vede scemare il successo della serie televisiva che lo ha fatto amare in tutta l’America e prende consapevolezza della necessità di una svolta.
A far da contraltare, i suoi vicini di casa a Bel Air, in sfolgorante ascesa: il regista Roman Polanski e la bella moglie l’attrice Sharon Tate.
Per una durata di quasi tre ore, la vicenda si sviluppa lentamente, mantenendo i tempi di un telefilm a puntate e la storia del protagonista appassiona nella sua quotidianità fatta di tentativi di rinascita, delusioni e prese di coscienza.
Se Rick soffre il declino, il suo alter ego Cliff Burns (Brad Pitt) ci sguazza.
Abituato a vivere dietro le quinte, fa del suo disincanto verso la vita e la professione, un vessillo; serve Rick con fedeltà, confondendo lavoro ed amicizia.
E’ un uomo semplice Cliff, a suo agio in una roulotte sgangherata che condivide col suo cane, o come ospite nella villa milionaria di Rick.
La fama non gli interessa e non lo intimidisce, ponendolo al di sopra delle parti, in grado di sfidare una superstar ad un combattimento o un esercito di hippies assassini.
Mentre il dipanarsi della vicenda raggiunge la china che flette alla noia, la regia cede via via più spazio alla storia di Sharon Tate, bellissima attrice “in fiore”.

Lentamente si riconosce quale vittima dell’Helter Skelter ad opera di Charles Manson e della sua “famiglia”. Giovane, piena di talento ed entusiasta della vita, come non amarla?!
E’ questo innamoramento a fil di telecamera che guiderà la seconda parte del film in una partecipazione affettiva alla sua storia sulla quale grava l’ombra consapevole di un presagio.
La fedele ricostruzione storica, immerge lo spettatore in un viaggio indietro nel tempo e lo porta a respirare l’atmosfera dell’America del 1969 tra Glamour e hippies.
Tra completini Paco Rabanne e architetture optical, si assiste ad un clima familiare pur non essendo mai stati a Hollywood.
Un film sul cinema fatto da chi ama il cinema.
L’ennesima dichiarazione d’amore di Tarantino coinvolge per cura dei dettagli e finezza descrittiva dei sentimenti di chi il cinema lo fa e lo vive.
Un meta-film per raccontare la potenza mediatica che può cambiare la storia e raccontare un mondo diverso.

Il cinema come “salvazione” in cui i buoni sono davvero buoni e i cattivi vengono spazzati via con la potenza di un lanciafiamme.
Recitazione sopra le righe per accentuare i personaggi che interpretano loro stessi.
Sharon spettatrice del film che interpreta è un momento di celebrativo candore. Il suo stupore la eleva a livelli di infantile poesia, come i suoi occhi sgranati sulla gioia di appartenere allo schermo.
Pur semplici i personaggi sono caratterizzati da forti elementi emotivi.
La crisi isterica di Rick, consapevole che la dipendenza dall’alcool ne sta minando le capacità recitative non è tanto nell’esplosione di rabbia quanto nella balbuzie che appare e scompare nei momenti di tensione.
Personaggi patinati ma terribilmente umani.
E su di loro, lo spettro della follia omicida che vela la storia di un alone nero fino all’epilogo.
Il ritmo narrativo resta alto, raggiungendo un paio di momenti di tensione perfettamente trasmessi attraverso lo schermo.
Interpreti perfetti nei ruoli e nelle prove d’attore, da farne dimenticare la fama (Brad Pitt e Leonardo Di Caprio) ed innamorare una volta di più (Margot Robbie) in un cast comunque costellato di ottimi attori e di astri nascenti.
Fantastici i cameo di Bruce Lee (Mike Moh) e Steve McQueen (Damian Lewis).
“C’era una volta a Hollywood” racconta la magia del cinema con amore.
Una freccia che mancava all’arco di Tarantino, talmente alto da arrivare ai livelli di “Pulp fiction”.