di Patrizia Caiffa – Parlare con il cantautore Giovanni Caccamo anche solo per una intervista è come bere un sorso d’acqua di sorgente, pura e cristallina, ma della consistenza delle parole. Parole scelte con cura, poetiche e profonde in cui l’anima si specchia nel dialogo, di cui ci si innamora quando diventano musica e armonia. Non è un caso che il suo ultimo cd, di grande successo, si chiami proprio “Parola“. Non è un caso che sia stato proprio Franco Battiato a lanciarlo, anni fa.
Giovanni Caccamo, 31 anni, modicano, ha raccontato in più interviste come è andato quell’incontro con il Maestro suo conterraneo. Battiato che andava al mare dalle sue parti, il giovane Giovanni appostato per ore con i suoi lavori musicali in mano e una emozione grande così. Il coraggio di avvicinarlo e dargli il cd. Dopo pochi giorni l’attesa telefonata – Giovanni imita perfettamente il tono di voce di Battiato – e l’appuntamento con il destino, o meglio, con il suo daimon, a detta del famoso psicanalista James Hilmann.
Oggi Caccamo è un artista raffinato e affermato, il suo quarto lavoro – con brani eccellenti come “Aurora“, “Il cambiamento“, “Canta“, “Le parole hanno un peso” – è impreziosito dalla presenza di testi d’autore recitati da voci d’eccezione tra cui Patty Smith, Willem Dafoe, Aleida Guevara, Andrea Camilleri, Liliana Segre, Michele Placido.
Da mesi sta girando l’Italia in tour e portando avanti un suo progetto speciale, “Parola ai giovani“, incontrando i coetanei nelle università per rivolgere loro una domanda cruciale, dopo questi anni di crisi: “Cosa cambieresti della società in cui vivi e come?“.
Le risposte più significative saranno raccolte in un manifesto che sarà consegnato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a Papa Francesco. Mentre sui social Giovanni condivide anche le sue emozioni: per la sua terra, per i nonni, per le piccole cose.
Le risposte che ha dato a B-Hop magazine raccontano di una vocazione musicale nata dal dolore e dal confronto con la morte, di gratitudine, bellezza, amore per la vita, silenzio e sogni.
Come è iniziata la tua passione per la musica?
Ho iniziato a frequentare un coro durante le scuole elementari e a suonare la chitarra. Poi mio papà si è ammalato di cancro e la sua morte è stata un passaggio che ha acceso un silenzio e ha interrotto in qualche modo il mio legame con la musica. Un po’ perché suonavo la chitarra per lui, un po’ perché sentivo la necessità di sospendere la mia armonia. Per tanti anni sono stato solo un ascoltatore e fruitore di musica. Lui era molto legato ad una canzone di Paolo Vallesi “La forza della vita” che io per tanti anni ho detestato. Una mattina ci chiede: “A me chi dà questa forza della vita?” Quindi per tanto tempo quella canzone è stata fonte di rabbia. Lui era molto devoto alla Madonna di Fatima ed è morto il 13 maggio, che è proprio la data in cui si celebra quella ricorrenza. Prima che morisse vennero delle suore da Palermo per pregare con lui e prima di tornare a casa dissero a mia madre: “La sofferenza di suo marito è un dono per la vostra famiglia”. Quelle parole sono state molto taglienti per tutti noi. Per tanti anni sono state fonte di rabbia, di ricerca. Alla fine ho trovato risposta nel libro di Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra”, in cui all’apice della sua carriera, nonostante una vita di successi, dice che gli anni della malattia sono stati i più vivi della sua vita. Quando ha saputo che gli rimanevano solo pochi anni si è acceso in lui questo desiderio di vita pura. La malattia diventa una sorta di giustificazione per iniziare a fare ciò che desideri fare e frequentare solo le persone che desideri frequentare. Questo mi ha fatto capire l’eredità che ho ricevuto da mio padre.
Capire da giovanissimo, senza aspettare che arrivasse un timer ad accendere la mia anima, che avrei potuto dedicarmi alla luce, alla bellezza e a cercare ciò che era più aderente alla mia identità. Il dialogo con la musica si è riacceso quando nella mia stanza ho ripreso a cantare.
La prima canzone che ho cantato è stata proprio “La forza della vita”. Per me il canto è stato una forma di dialogo con mio padre. Questa passione si è trasformata in vocazione ma solo a 18/19 anni ho iniziato a scrivere e ho capito che potevo iniziare ad essere fonte di storie, di emozioni nuove.
Hai ricevuto anche un’altra eredità importante da Franco Battiato. Ti disse anche una frase preziosa, invitandoti ad innamorarti per primo della tua arte.
Sì, mi ha detto: “Ricorda che l’unica strada che hai per essere un uomo libero sarà ricordarsi ogni giorno di scardinare l’arte dal fine”. Questa è una eredità preziosa e mi ha dato la possibilità di evitare una serie di dinamiche che in realtà sono umanamente distruttive e ti fanno entrare in una sorta di giostra, di gabbia d’oro, in cui gli obiettivi reali si allontanano dalla tua vera essenza. Questa frase mi ha dato le coordinate Gps per dare le giuste priorità alla mia vita.
Siamo su questa terra per godere degli attimi di luce ed esserne portavoce, amplificarli.
L’eredità artistica la sento come penso la possiamo sentire tutti. Siamo tutti eredi di artisti come Bach, Handel, Battiato o Caravaggio. Sta a noi nutrirci di queste eredità e cercare di trasformarle e farne tesoro.
Cosa ti manca di più del Maestro?
Ci siamo visti con costanza fino ad un paio di settimane prima del suo passaggio. La cosa che mi manca di più sono i suoi silenzi, anche se probabilmente è una cosa che tuttora continuo a percepire. Penso sia cambiato il linguaggio. E’ stato lui ad insegnarmi a leggere tra le righe, andare oltre il visibile e capire quali sono i segnali che ci circondano, che ci parlano. Invece spesso siamo nella distrazione e non ce ne rendiamo conto.
Coincidenze e sincronicità sono un modo per contattare chi è dall’altra parte della porta. Quindi continui a dialogare con lui in questo modo?
Esatto.
Qual è il tuo ultimo ricordo con Franco Battiato?
(lungo silenzio di riflessione) In realtà penso che le anime continuino a danzare. E’ un po’ come l’ultimo ricordo con mio padre. E’ ovvio che il rapporto con papà è molto più duraturo e solido nella non presenza terrena che nell’esperienza terrena vissuta. Penso che sia un ricordo in divenire, costante. Sicuramente un ricordo terreno è la sua malattia, simbolicamente molto significativa. E’ stato sempre un uomo molto generoso e non attaccato alla materia. Sapeva che qualsiasi anima consapevole, nobile ed evoluta debba prescindere dalla materia.
La sua malattia è stata una sorta di ulteriore prova per la sua anima, come una mandala: è stato costretto a distruggere, ad abbandonare sulla terra anche il suo “giardino dell’Eden”, ossia il suo intelletto, che aveva coltivato, progettato, reso la sua casa interiore. Ha dovuto lasciare anche le sue proprietà intellettive per raggiungere e sintetizzare la sua essenza.
Cos’è la bellezza per te?
La bellezza la sintetizzerei con la parola gratitudine. Sono a metà del progetto “Parola ai giovani” e ho posto a tutti i ragazzi una domanda: cosa cambieresti della società in cui vivi e in che modo? Ognuno ha dovuto trovare una parola di cambiamento e rispondere alla domanda scrivendo un piccolo trattato. La mia parola di cambiamento è gratitudine.
Penso che la porta per affacciarsi sulla bellezza sia la gratitudine, in quanto presa di coscienza della propria fortuna, del bello intorno a noi.
Perché la prima cosa che ci rende infelici è proprio questa assenza di consapevolezza della bellezza, è come se fossimo in una ipnosi costante, in una ricerca costante di ciò che non abbiamo. Inconsapevoli di ciò che invece ci viene donato.
Io mi identifico molto con la parola “gratitudine” perché è madre di tante altre virtù.
In un approccio grato alla vita non puoi essere indifferente, non puoi essere violento, irrispettoso, non puoi non avere cura dell’ambiente. La gratitudine implica coscienza, la coscienza implica la libertà poi di fare una scelta. Quella scelta la fai per la luce o per il buio.
L’altra parola chiave è la parola Morte. Più che avere paura della morte, che tendenzialmente alimentiamo nelle nostre vite. La domanda che dobbiamo porci è: ma noi in vita siamo realmente vivi o viviamo come morti? Alla fine la morte è un passaggio fondamentale che pone un limite nelle nostre giornate, quindi ci fa paura, che però ne trasforma anche il valore. Perché il ferro è meno prezioso dei diamanti? Perché i diamanti sono più rari.
La morte è quel passaggio che pone un limite alle nostre giornate e le rende preziose, ne accresce il valore.
Il memento mori oggi lo trasformerei in “ricordati di vivere”.
Il progetto “Parola ai giovani” ti ha portato nelle università o a contattarli tramite social. Cosa ti hanno lasciato questi incontri? Come vedi i giovani italiani?
E’ finita la prima parte ora sto facendo la stessa domanda a giovani eccellenze: campioni olimpici, del mondo dello sport, della musica e della scienza. Sono partito con un grande ottimismo, che è stato un po’ smorzato dalla realtà. Sicuramente c’è un grande bisogno di emozioni basilari: di ascolto, di empatia, di cura intesa come presenza. Per me il concetto di cura passa anche attraverso regole e norme. Mancano secondo me tutti quegli elementi che aiutano i giovani a capire meglio come funziona la vita. Teniamo sotto una sorta di campana di vetro tutti i ragazzi fino alla fine dell’università, evitando bocciature, note del registro, orari per rientrare a casa, tutte regole che presuppongono un attrito. E’ più difficile scontrarsi e stare a discutere un’ora. Quindi i giovani li vedo un po’ abbandonati. E’ più triste la conseguenza. Il problema è l’inettitudine da un lato e l’assenza di prospettive e di orizzonti.
Trovare ragazzi che a 18/20 anni non hanno un sogno è un po’ come un volatile senza ali.
Del resto se negli ultimi dieci/venti anni si è quasi annullata la distanza tra il desiderio e la realizzazione del desiderio. Voglio qualcosa, la ottengo. Nel momento in cui pensi che ad ogni auspicio corrisponda una immediata risposta pensi che poi vada effettivamente così. Poi quando entri nel lavoro e nella società ti rendi conto che le cose vanno diversamente. Questa mancanza di perseveranza, di forza, di costanza, di determinazione dovuta al non essere abituato a guadagnarti un risultato ti porta alla resa. Meglio stare passivamente a guardare che darsi da fare, qualcosa arriverà dall’altro.
Per concludere: nuovi progetti?
Una lunga vacanza. Il disco “Parola” è frutto di tre anni di lavoro e anche “Parola ai giovani” è un’altra impresa importante che finirà intorno a Natale. Spero l’anno prossimo di tornare a viaggiare, a nutrirmi, a riavvicinarmi a quella lentezza che consente la creatività.