(di Margherita Vetrano) – Marcello è un toelettatore per cani, mite, amato da tutti gli abitanti del quartiere in cui lavora. Simone è un violento, cocainomane, psicopatico. Marcello e Simone sono amici, o quel che due persone così diverse possono essere; il loro è un rapporto di sudditanza oppressiva, in cui la vittima soggiace al despota, in un misto di paura ed ammirazione. Ma ogni relazione raggiunge il suo acme e quando questo accade, inevitabilmente, avviene la svolta. Inizia così la vicenda “der canaro”, raccontata nel film di Matteo Garrone “Dogman”, premiato a Cannes 2018 con la palma d’oro per il Miglior Attore a Marcello Fonte.
Il film recupera un fatto di cronaca dei bui anni ottanta; tempi di banda della Magliana e dintorni, in cui emergeva una Roma cupa e violenta.
Panorama meravigliosamente descritto dal regista in un ambiente affine ma differente, trasponendo nomi reali e fatti per sfuggire alla censura che incombeva sulla pellicola sin dai primi fotogrammi.
Pur mascherando personaggi e luoghi, la vicenda esplode prepotente sullo schermo e nella memoria; l’episodio di Pietro De Negri, “il canaro” che sconvolse l’opinione pubblica di allora, colpisce ancora come un fulmine a ciel sereno.
Quante angherie può sopportare un uomo prima di ribellarsi? Pietro/Marcello subisce fino al punto di annullarsi, di abbracciare colpe non sue, per paura, per viltà o ingenuità.
Il film racconta di un uomo gentile, amante degli animali e dedito alla figlia, ma quanto realmente lo fosse nel suo intimo non è dato sapere.
La rappresentazione partigiana di vittima gentile aiuta a sprofondare lo spettatore in un gorgo di angoscia per l’impossibilità di ribellarsi alle prepotenze, al punto da empatizzare col protagonista, vivendo la sua stessa incapacità di rivalsa che rende ancora più eclatante il riscatto.
L’ambiente degradato fisico e sociale enfatizza lo schiacciamento della personalità di Marcello che vive le sue giornate curvo, ripiegato su sé stesso nascondendo un lato oscuro che lentamente viene messo in luce.
Spaccio, favoreggiamento e partecipazione ad atti delittuosi, sia pur sotto il giogo delle minacce esplicite o larvate, Marcello segue Simone senza opporsi mai nettamente, vivendo un conflitto interiore tra consapevolezza e disagio, che lo porta a raggiungere una forma di pseudo ammirazione per l’uomo che lo sfrutta, lo manipola e lo controlla.
La paura accorcia la distanza tra i due, in un rapporto cannibalico, come la catena che lega il cane feroce nella prima sequenza. Il loro rapporto è raccontato lì; Marcello teme Simone come teme il cane che accudisce, rabbonisce, tenendolo legato.
Ma se in vita il legame è metaforico, nel momento estremo saranno proprio quegli anelli a spegnerlo per sempre, assolvendo “il canaro”, carnefice per caso.
Anche nel momento di maggior efferatezza il dito non è mai completamente puntato su di lui e il regista gli lascia una scappatoia: colpisce ma cerca di rimediare curando, attacca ma si difende.
Le torture descritte in cronaca, mai confutate, vengono obliate in un racconto che sfuma sul finale passando dalla realtà all’immaginifico, lasciando il dubbio su quanto realmente accaduto e quanto presunto.
Ciò che resta, accese le luci in sala, è quel senso di sconfitta per esser stati fagocitati dal mostro. Niente è mai come sembra e nessuno è completamente buono o cattivo.
L’ingenuità è perduta pagando il pegno alla paura; nell’ultima inquadratura lo sguardo di Marcello è perso all’orizzonte di un’alba che non arriverà.
Come ai tempi dell’”Imbalsamatore”, Garrone si conferma perfetto nel tratteggiare i personaggi, e altrettanto nello scegliere gli interpreti, più o meno famosi, nel panorama del cinema italiano.
Il realismo nel linguaggio e nelle facce degne del miglior Schiele, portano lo spettatore dentro la pellicola, nei fatti, spingendo le emozioni sotto pelle.