Pomeriggio di pioggia, un pub deserto di Trastevere. Incontriamo Roberto Scippa, cantautore romano indipendente: ci parla del suo Canzoni d’emergenza, un lavoro discografico che rivela una maturità musicale impressionante. Votati ai temi della bellezza, dell’energia, della “liberazione”, gli undici brani del disco ripercorrono atmosfere a tratti quotidiane e a tratti più oniriche, momenti drammatici e ironici. Fra influenze cantautorali nostrane e il rock-beat inglese o americano, il suono di Scippa riesce a mescolare stili e sensazioni arrivando dritto al cuore. Per un quasi esordiente è difficile parlare di successo, eppure le recensioni rivelano sin qui un atteggiamento entusiasta. Tanto che Canzoni d’emergenza è ormai presente anche nei maggiori negozi di dischi: un dato eccezionale, visto che stiamo parlando di un’autoproduzione.
Quanto è difficile oggi realizzare un disco professionale, curato sino al minimo dettaglio, senza le spalle coperte da una grande casa discografica? Insomma, hai fatto tutto da solo?
“Canzoni d’emergenza” è sì un’autoproduzione, ma non è vero che ho fatto tutto da solo. È comunque un’opera che mi ha lasciato profondamente soddisfatto. A quattro anni di distanza dal mio disco d’esordio (“Vagando dentro”, ndr), ho provato a creare un’opera meno intimista, meno introspettiva di quella, meno essenziale e ripetitiva nei suoni. Per farlo ho dovuto cedere all’esigenza di un’apertura, di un’evoluzione naturale contraddistinta dalla volontà di raccontare la bellezza attraverso un suono specifico e più curato: meno acustico ma più lavorato ed energetico. Per questo è stato un lavoro enorme e inimmaginabile, anche costoso da un punto di vista economico. Il disco è il frutto di tanti miei sacrifici lavorativi: ha potuto vedere la luce anche grazie alla mia famiglia, che mi ha sostenuto. Per quanto riguarda la produzione ho provato qualcosa di nuovo, affidandomi anche ad altri, ascoltando pareri, confrontandomi. Soprattutto perché c’era la volontà di fare un lavoro professionale. Non a caso il mixing e il mastering finale ho voluto si facessero in uno studio importante, la “42 Records” di Bologna. Oltre alla produzione ho cercato l’aiuto nella promozione dell’ufficio stampa di “Lunatik”, Gian Paolo Giabini già produttore a livello nazionale per “La Tempesta Dischi”.
Parlaci del disco allora. Cos’è questa “emergenza”?
L’emergenza è l’urgenza di un cambiamento pratico nella nostra visione del mondo, rispetto alle relazioni, all’ambito lavorativo, tutto. Il disco suona infatti come una specie di sveglia, anzitutto per me. Insomma, a me ha fatto bene scrivere queste canzoni, dare loro una forma, farle uscire. Perché raccontano l’esperienza di un percorso personale. Credo che quando tu fai qualcosa di sincero, che a te fa bene, alla fine riesci comunque a intercettare anche il bisogno di qualcun altro. Il mio era un’emergenza di liberazione. Sono convinto che soprattutto in questo periodo sia importante dare un messaggio di bellezza, di costruzione, di speranza… Non mi interessano quelli che scrivono cose negative, quelli che polemizzano, che portano fuori il pessimismo senza alcuna spinta al cambiamento. Io rimango profondamente convinto del potenziale immenso dell’essere umano. Non a caso ne “L’ingranaggio”, il pezzo più tirato, ho scritto: “Qual è il movimento che ci libererà dall’ingranaggio della complicità”. Ecco, è un bisogno di libertà rispetto a certi condizionamenti, a certi schemi, a certe forme anche di pessimismo e di rassegnazione alla quale siamo, purtroppo, abituati. Capito il discorso? Cerco un movimento del corpo, non un movimento di pensiero. Una specie di danza, una torsione interiore che non alimenti l’ingranaggio di tutte quelle cose che ti fanno muovere senza sentire te stesso.
Non soltanto l’urgenza però, “emergenza” significa anche “emersione”…
Assolutamente sì, infatti nel disco c’è molta acqua. Due pezzi (“L’isola” e “Un naufrago”) sono direttamente legati all’ambiente marino, come a simboleggiare la volontà di uscire fuori da un qualcosa di oscuro, che ne “L’isola” prende il nome di “tiranno Confusione”. Fuor di metafora, rimane un disco di esperienza che non a caso trova il suo centro filosofico nel primo singolo “Piccole rivolte quotidiane”, un manifesto di liberazione che nasce da un’esigenza privata, viscerale, da “un cuore che chiama rivolta” e che finisce col “fare bene all’universo”. Ciò che volevo esprimere è questa libertà, la necessità d’incarnarsi, di sentire il nostro corpo e le nostre emozioni, oltre i condizionamenti…
Insomma di “Sporcarsi le mani”, come recita un emozionantissimo passaggio del disco?
Quella è una specie di preghiera laica, con un arrangiamento importante firmato anche da Matteo Portelli e Flavio Pasquetto che ha registrato quasi tutte le chitarre elettriche del disco e che ha dato un sound-beat, psichedelico e british in alcuni punti del lavoro, come anche nel pezzo d’apertura, “Fatto per”, dal tono dichiaratamente beatleasiano. Tornando a “Sporcarsi le mani”, penso che rappresenti uno dei momenti più profondi del lavoro, anche per me che la canto e che l’ho incisa.
Il valore del tuo lavoro è indiscutibile, com’è indiscutibile la difficoltà per “emergere”… Così a bruciapelo: Roberto Scippa parteciperebbe mai a un talent?
Direi di no. Quella è una dimensione della musica che non mi appartiene e non mi interessa. Perché produce solo degli interpreti, mai dei cantautori. Un talent è prevedibile: cosa di nuovo può darci? Nonostante ritenga importante l’aspetto estetico, il modo in cui ti vesti e ti proponi al pubblico, rimango profondamente convinto che la musica e la scrittura non possono essere filtrate dall’industria, dalla necessità di spettacolarizzare, di fare audience. I talent sono legati al business, io non ci vedo autenticità. Troppi filtri ingombranti perché la bellezza possa manifestarsi. Vendere tanto va bene, è un valore aggiunto. Ma la musica non deve essere fatta per vendere.