(di Filippo Bocci) – Tutta l’attenzione dello spettatore del film Cafarnao – Caos e miracoli della regista Nadine Labaki, è catturata per il tempo dell’azione dalla maschera dolorosa di Zain, uno dei tanti bambini – probabilmente dodicenne, nemmeno i suoi genitori conoscono precisamente la sua età – cresciuti troppo in fretta nel Libano di oggi.
Il Paese, che ospita più di un milione e mezzo di rifugiati, perlopiù palestinesi e siriani, è nelle sue sacche di povertà un infernale ghetto multietnico, dove mettere al mondo figli e sfruttare il loro lavoro è la fonte di sostentamento di una popolazione senza sogni e senza futuro.

Prima di svelarci l’antefatto, la regista, anche interprete in una piccola parte, ci presenta il nostro piccolo eroe che, in carcere per aver accoltellato, come egli stesso dice, “un figlio di puttana”, vuole intentare causa ai suoi genitori per averlo messo al mondo.
Da qui comincia il racconto di un’esistenza fatta di espedienti, piccoli furti, sfruttamenti, traffici, abusi, dove i bambini, a cui viene negato il tempo della loro età, non conoscono la dimensione del gioco ma solo quella del lavoro, non possono andare a scuola ma obbediscono solo alla legge della strada, sono l’oliato lubrificante di un iniquo, perverso ingranaggio.
Ridotti a numero, costituiscono una forza “economica” per gli adulti, che mandano presto i maschi al lavoro, o “vendono” le figlie, dandole in spose bambine per ricavarne denaro.
Il nostro protagonista incarna un piccolo “resistente”, una scheggia impazzita del sistema.
Quando i suoi genitori acconsentono al matrimonio della sorella Sahar, undicenne, con il ricco Assad, Zain, amareggiato, va via di casa e forma un nuovo nucleo familiare con Rahil, immigrata irregolare etiope che lavora come inserviente in un parco giochi. Rahil è mamma di Yonas, un bambino molto piccolo che è costretta a nascondere, a cui Zain si affeziona come fosse un figlio, e al quale riserva le cure che nessuno ha mai avuto per lui quando Rahil viene arrestata e non fa più ritorno a casa.
Zain sogna di andare via dal Libano, e, parlando con Maysoun, una ragazzina siriana, fantastica un futuro in Svezia o in Turchia, purché altrove.
Ma non ha un documento di identità, i suoi genitori non lo hanno mai registrato, non c’è una carta che attesti il suo stare al mondo, invisibile fra tanti.
Ecco il film è un po’ tutto questo: la fotografia di un Libano crocevia di culture e dolori, in cui
i bambini lavorano sfruttati nelle strade, le città sono grigie e sporche, un posto dimenticato da Dio.
Un mucchio confusionale, nel significato etimologico del termine cafarnao probabilmente derivato dalle grandi folle attirate da Gesù nell’antica città della Galilea. Ma, come a Cafarnao Gesù iniziò a predicare il suo Regno, qui Zain, un monello che ricorda lo spavaldo e protettivo Gavroche dei Miserabili (fra l’altro anche Rahil come la Fantine del capolavoro di Hugo vende per denaro i suoi capelli), è la voce di una speranza ostinata, il grido alto della coscienza sbattuta in faccia ad un mondo avvitato nella disumana e irreversibile logica della miseria.
Girata con attori non professionisti – Yordanos Shiferaw che interpreta Rahil è stata veramente arrestata per mancanza di documenti legali durante le riprese e poi rilasciata – la pellicola vive dello sguardo fiero ma triste del giovane Zain El Hajj, con la camera che abbonda nei primi piani, sempre impietosa testimone – si è parlato anche di neorealismo – di una coatta, quotidiana asfissia sociale.
Lo spettatore, che si perde dietro gli espedienti del vivere di Zain, si appassiona alla storia, stretto suo malgrado nei vicoli di una Beirut squallida, angusta e soffocante, piena fino a scoppiare di miseria e disperazione.
Cafarnao – Caos e miracoli, che da opera di finzione si fa denuncia civile, ha vinto il Premio della giuria al Festival di Cannes 2018.