di Giulia Segna – Qualche sera fa, nel quartiere romano di Tor Pignattara, noto per la sua vivacità multiculturale, è andato in scena uno spettacolo di teatro sociale: storie realmente accadute raccontate da chi le ha vissute.
Domenica 12 giugno 2022, gli iscritti al laboratorio di teatro interculturale hanno dato vita a “Oltre i banchi”, uno spettacolo di teatro sociale, prodotto dall’Associazione Spring in collaborazione con la Fondazione Intercammini, Fortezza Est e Associazione La Rocca.
“I temi su cui abbiamo lavorato e che vi proponiamo stasera”, spiega il regista Mauro Santopietro, “sono il pregiudizio e lo stereotipo”.
“Il teatro sociale non va confuso con quello civile o drammaturgico, perché racconta fatti accaduti, attraverso le parole e le emozioni dei protagonisti stessi”.
Un esperimento artistico che porta in scena la vita vera. Un evento complesso e stimolante, che ha richiesto la presenza di figure professionali come quella di Cristiana Russo, mediatrice culturale, Cinzia Sabbatini, formatrice interculturale, e Grazia Sgueglia, organizzatrice teatrale.
Il pubblico è curioso.
Si è radunato nella corte di vecchie palazzine di Tor Pignattara, quartiere noto per l’effervescenza multiculturale: davanti alle finestre degli appartamenti, appesi ai fili, una tovaglia fiorata e un tappetino per la preghiera musulmana. Odori mescolati di fritto, lasagna, spezie e tè al cardamomo. Frammenti di musica rap da un lato della strada e sonorità indiane dal negozio di fronte.
È in questa cornice originale e suggestiva che vanno in scena i monologhi dei cinque attori amatoriali.

Destiny, nigeriano, racconta del viaggio che ha intrapreso qualche anno fa per raggiungere l’Italia, una terra che gli sta permettendo di sognare ma non senza difficoltà:
“Quando mi avvicino alle persone, qualcuno si allontana o stringe a sé la borsa, come se volessi rubargliela. Ma tranquilli, se mi avvicino a voi è solo per leggere la marca dei vostri vestiti, così posso andare in negozio e comprarli anche io, per essere più simile a voi”.
Parla di Africa in termini nuovi, in un modo inaspettato e sorprendente: il traffico, l’odore dei biscotti al cioccolato, i grattacieli in centro città, il lavoro, le risate dei bambini che giocano arrampicandosi sugli alberi. “Pensate che l’Africa sia tutta povera e che chi se ne va fugge dalla miseria, ma non è così: molti di noi partono perché vogliono scoprire il mondo, confrontarsi con altre culture, fare nuove esperienze, le stesse che i ragazzi italiani provano a fare quando vanno in America”.
Ora è il turno di Aurora, che è “sorda e non sordomuta” ci tiene a sottolineare. “
Sono cresciuta in una bolla, non perché non sentissi ma perché la famiglia, udente, ha sempre fatto in modo di non farmi sentire diversa. Poi, un giorno, al parco, un’amichetta mi chiede “ma perché parli strano?”
Lei non se l’era mai fatta quella domanda. Non sapeva neanche di parlare strano. La diversità ti cade addosso quando meno te l’aspetti.
Fa male, ammette Aurora, ma è orgogliosa di essere così com’è, è felice della sua caratteristica, è fiera di come ha affrontato la fase adolescenziale, piena di occhiate e risatine, quella liceale, fatta di isolamento e incomprensioni, e quella universitaria, che pure le ha presentato qualche delusione.
“Tutto sommato essere sorda è un privilegio”, conclude sorridendo, “così evito di sentire certe stronzate che sparate”.
Prende la parola Surzo, che di essere etichettato come secchione proprio non ce la fa più. “Solo perché ho gli occhiali!” dice spesso, tra una risata e un broncio. La prima volta che l’hanno preso in giro era alla scuola coranica, un compagno gli ha fatto notare che se leggi nel tempo libero vuol dire che sei uno sfigato.

“Ma che ci posso fare se mi piace leggere?”, commenta recitando. “Oh, mi piacciono anche un sacco di altre cose, eh!”. Cita alcune serie TV, le uscite con i coetanei e il calcio. Quel calcio cui ormai ha rinunciato perché troppe volte gli hanno gridato “Sei negato, un secchione con gli occhiali non può giocare, non è per te!”. Alle partite non partecipa più, le vede in televisione o dagli spalti del campetto di quartiere. Ma va bene così, perché in fondo “il calcio è uno sport pericoloso, e rischiare di farmi male – visto che sono mingherlino – proprio non mi va!”
“Sono nata a Roma”, esordisce Sonia, “sotto al Cupolone, precisamente. Ma quando dico che sono italiana nessuno mi crede”. Ha origini capoverdiane, per questo la pelle è scura, e ai tanti italiani che incontra questo basta per pensare che, in fondo, davvero italiana non sia.
Anche lei, come Aurora, si è accorta di essere diversa quando qualcuno glielo ha fatto notare. Prima di allora, spiega, non si era resa conto di avere un colore diverso dagli altri. Eppure, è stato da quel momento che ha sentito il bisogno di identificarsi con qualcuno che le somigliasse. Cercava un’eroina nera che le desse coraggio nei momenti di sconforto, una musa afro discendente che la ispirasse quando era disorientata, una donna scura professionalmente affermata da emulare.
“L’ho cercata per tantissimo tempo e non riuscivo a trovarla: i media e i libri italiani non proponevano che volti di donne bianchissime, che non rispecchiavano niente di me”. Era frustrata, arrabbiata, sentiva di essere sola e aveva quasi abbandonato la speranza.
“Poi, una sera, a cena con mia madre, l’ho guardata come non mi era mai successo. Per la prima volta ho visto la sua forza. Ho capito quanto fosse stata coraggiosa a lasciare il suo paese, da sola, e affrontare un mondo nuovo, da sola. A trovare lavoro, imparare una lingua straniera, guadagnare uno spazio suo, crescere dei figli. Per la prima volta ho capito che l’eroina che cercavo da anni, ce l’avevo sempre avuta accanto”.
A concludere la serie di monologhi è Teresa. Seduta su una poltrona con le gambe accavallate, spiega al pubblico che lo stereotipo che soffre è quello della “ragazza superficiale, che non vuole figli, che fa sesso per divertimento e non per amore”.
Queste sono le critiche che si sente rivolgere continuamente dalla sua famiglia, orgogliosamente cattolica. Al pranzo di Natale scorso è riuscita a dire alla cugina che ogni tanto usa Tinder, l’app di incontri. “Pensavo di confidarle una cosa simpatica, e invece ha reagito malissimo. Mi sono sentita giudicata e non capita”.
Teresa vorrebbe raccontare molto più di sé ai genitori e ai nonni, ma come può farsi conoscere davvero se perfino una coetanea la fa sentire sbagliata? Continuerà a provarci, troverà il coraggio di essere sé stessa e affronterà a testa alta le critiche che di sicuro le piomberanno addosso.
La sua piccola grande battaglia culturale rappresenta tutte le donne imprigionate in una società che le vuole mogli, prima che amanti; madri, prima che professioniste; angeli del focolare, prima che esploratrici del mondo.