“Il mese di novembre si tinge di viola a contrada Magnì” dice lo slogan mediocremente poetico inventato per invitare volontari di Ragusa e dintorni a condividere la raccolta di zafferano. È uno di quei momenti della giornata che pochi amano frequentare. La raccolta dello zafferano va compiuta all’alba, prendendo d’anticipo il calore del sole che schiude i fiori e intacca le proprietà organolettiche del prodotto finale.
La produzione dello zafferano siciliano fa parte di un progetto di auto imprenditorialità per cittadini stranieri seguiti come tutor da giovani professionisti locali. Il tentativo è quello di interrompere i processi di competizione per avviare quelli di cooperazione e vedere di nascosto l’effetto che fa. Il quartier generale è in contrada Magnì, presso una antica masseria dotata di fabbricati e 10 ettari di terreno di proprietà della diocesi di Ragusa. In poco meno di 1.000 metri quadrati si coltiva il fiore di zafferano che può raggiungere quotazioni di €20,00 al grammo.
Nel prossimo mese di gennaio lavoratori stranieri e italiani daranno vita a un’azienda agricola autonoma. La scelta di operare in modo cooperativo, la produzione biologica di colture Presidi di Slow Food, il lavoro con persone svantaggiate, il coinvolgimento di professionalità locali e del territorio rappresentano un modo diverso di intendere le migrazioni e il loro rapporto con la realtà di accoglienza.
In realtà lo zafferano è un fiore infingardo. Una patata con poche pretese che germoglia in un fiore delicato e livido da cui si prelevano solo i vistosi pistilli, con un elaborato procedimento da cerimonia bizantina. Alla fine i pistilli rossissimi del fiore viola, daranno un colore giallo al piatto servito in tavola.
Questa esuberanza cromatica dello zafferano è niente rispetto a quella dei miei compagni di avventura.
K. è un punkabbestia redento. Della vitaccia precedente gli è rimasto il petto sfondato da un elefante ai tempi in cui lavorava al circo, uno smisurato amore per i cani e un risentimento altrettanto esagerato per i neri. Si sdraia sul terreno, bacia il crocifisso che ha al collo e comincia, rasoterra, la raccolta. Parla solo per dire che è contento della recente vittoria di Trump e il suo argomento è sillogistico: Hillary è come Obama e Obama è nero. Il suo cane Shogun si avventa periodicamente su di lui, come fosse una preda, si becca delle parolacce in una lingua slava e lascia in pace noi altri due.
D. è un muratore albanese convertito all’agricoltura, con una faccia simpatica e accidentata, modellata su un gheriglio di noce. Nella sua bocca grande i denti precocemente radi sono pietre miliari. Gli piace svegliarsi all’aurora, il caffè corretto e cantare.
Noi tre siamo qui apposta: due futuri imprenditori agricoli stranieri e un volontario che restituisce le proprie braccia all’agricoltura. Per tacer del cane Shogun che brucia gli ettari come Usain Bolt e abbaia alla campagna come piace a Paolo Conte.
Visti dal di fuori dobbiamo sembrare tre educande impegnate in un delicato hobby mattiniero, ma in mezzo al campo D. mi confida che preferisce altri modi (tutti irripetibili) per farsi venire il mal di schiena. Insomma la raccolta dello zafferano non è uno sport per signorine, anche se poi ci sono ben quattro future imprenditrici che si alternano nella raccolta e nella sfioritura.
Ci vogliono 375 fiori per ottenere un grammo di prodotto. I fiori di zafferano vanno contati e io perdo il conto con facilità estrema perché tendo a farmi portare a spasso, al guinzaglio dei miei pensieri, neanche fossero Shogun.
Intanto dietro le colline degli iblei il sole si annuncia sbruffone al suo solito con il “Così parlò Zarathustra” di Strauss e una grancassa di vento tiepido (ero arrivato a 599 o 699?).
Le colline si colorano d’oro, l’oro si scioglie nell’indaco, l’indaco si fa trascinare dall’ultravioletto in zone inesplorabili. È per questo che nell’invito ai volontari ho scritto che si tratta di una esperienza magica e piena di poesia per chi ama il contatto con la natura e con la terra.
È sempre per questo che vengo punito: dopo la prima mezz’ora a stare chinati le gambe tremano, la schiena invoca una tregua, le ginocchia vengono attraversate da lame di dolore. È un dolce abbandonarsi ai ricordi: il colpo della strega del 2015, la cervicale del 2008, la frattura del perone del 1991. Su tutto si posa una polvere di zafferano.
D. canta quella canzone di Toto Cutugno che vuole andare a vivere in campagna. Lo accompagna un coro di cornacchie. Il sole di novembre ha preso possesso della giornata e adesso suona una cosa di Debussy che ho sentito in qualche pubblicità o quando ero bambino, a casa di mio nonno che abitava sopra a un apprendista suonatore di pianoforte, che si esercitava senza posa.
Abbiamo raccolto un numero di fiori compreso tra venti e quattromila (ma potrei essermi confuso) e il campo è invaso di bellezza, di risate sconce, di latrati e di cesti colmi di fiori dalla testa reclinata.
La terra infilata sotto le unghie, le tute del secolo passato e le scarpe sformate ci fanno sembrare zombie tornati alla vita, ridestati dall’aroma del caffè con cui si chiude la mattina di raccolta.
Ragusa si sveglia e torno a casa a preparare la colazione per la famiglia.
È faticoso raccogliere lo zafferano. Quasi quasi domani ci torno.