Esistere significa connettersi, essere in rete, manifestarsi quasi solo unicamente tramite uno schermo? Oppure piuttosto dovremmo riflettere su quanta realtà ci stiamo perdendo attorno a noi? Mentre attraversiamo un bosco, guardiamo gli alberi anziché fare fotografie; quando camminiamo per strada riscopriamo il valore di un sorriso e volgiamo lo sguardo alla gente; al ristorante mangiamo, senza condividere con l’amico di Brescia l’intensità di cottura del filetto, che certo un fotogramma spedito via etere non renderà mai. Insomma gente, torniamo a vivere nel mondo.
Il cellulare è diventata una triste protesi bionica delle nostre braccia, la conferma dell’opponibilità del pollice ma anche dell’anello mancante darwiniano; l’amico che ci accompagna ovunque (anche in bagno, non si sa mai dovesse arrivare una email urgente, peggio che mai un messaggio cui dover rispondere in meno di un nano secondo!) dandoci l’illusoria sicurezza di non essere mai soli. Sempre connessi, sempre accesi. Sempre vivi? Me lo domando con una certa preoccupazione.
Siamo vivi quando siamo connessi, o piuttosto in uno stato di catalessi in cui meccanicamente compiamo gesti oramai ritualizzati, liquidi e automatici, impersonali come l’invio compulsivo di sms, messaggi in chat, mail, social network. Rituali tribali che ci fanno sentire parte di un gruppo, azioni per riempire altrimenti un vuoto? Abbiamo davvero bisogno di sentirci presenti, renderci palesi al mondo attraverso uno schermo, perché la nostra esistenza terrena, quella in carne ed ossa non basta più a garantirci la dignità di essere umano? Ci sono persone che pensano di esistere solo se sono iscritte a Facebook. Cogito ergo clicco.

Vi capita mai, per esempio, di incontrare qualcuno per la prima volta – auspicabilmente in un contesto non formale- che vi chieda ‘’mi ripeti per favore il tuo nome…..ma sei su facebook?’’. Come dire: se davvero esisti posso trovarti dentro un monitor, non mi basta sapere che respiriamo lo stesso ossigeno terrestre, dobbiamo incontrarci anche nel cyberspazio, anzi dobbiamo farlo soprattutto lì, necessariamente protetti da una maschera. Molte maschere, pochi volti.
C’era una volta la conversazione, l’arte di incontrarsi, sedersi davanti una tazza di caffè, magari in un bar o nel salotto di casa e scambiare emozioni, spettegolare, aggiornarsi, confidarsi guardandosi negli occhi.
C’era una volta anche l’amicizia vera, che per coltivarla dovevi fare la fatica di metterti in gioco come persona, magari anche una partita di pallone, un thè, andare al cinema insieme. Litigare, abbracciarsi. Piangere ridere, provare sentimenti.
C’era un tempo in cui le emozioni le dimostravi, ricordi? Ora si manda una emoticon gialla, una faccina preconfezionata che dice al nostro interlocutore, che sta al di là dello schermo a gongolare nell’attesa del bip di ricezione, se siamo arrabbiati, delusi, felici. Non scriviamo più ‘’ti sto pensando’’, oppure ‘’sono felice’’, né ‘’oggi c’è il sole’’.
Si sintetizzano le emozioni, si limitano le parole. Si parla attraverso i segni. Un po’ come gli uomini delle caverne, manifestando un’evidente regressione. Bisonte significava abbiamo mangiato, abbiamo cacciato, siamo bravi. Fuoco dipinto sul muro significava luce, calore. Poi una divinità che illuminava. Ora ci sono i pixel. Quando fanno luce sulla caverna platonica del nostro schermo arrivano le ombre dell’illusione, la proiezione fallace del mondo reale.
C’era un tempo, dicevamo, in cui le persone facevano di tutto per vedersi, per raccogliersi in gruppi, uscire, mangiare una pizza, parlare. A quei tempi esistevano ancora le piazze, dove uomini, donne, bambini si incontravano, per caso o per fortuna, per diletto o per commercio e parlavano.
Ora ci sono le bacheche dei social network, delle piattaforme di socializzazione, dei campi di concentramento per eroi da tastiera, reclusi ed ammassati, ridotti a schiavitù dal potere della celebrità multimediale. Pagine e bacheche condivise, cloache massime dell’ ego irrisolto, vetrine della vanità, muri virtuali imbrattati di populismo dove tutto è permesso, dove non c’è imbarazzo, dove tutti si sentono in dovere di esternare senza imbarazzo il proprio pensiero, salvo poi negarlo alla prima occasione pubblica, cioè reale. Mandiamo avanti l’avatar, l’ombra platonica di cui sopra.

Esisteva il telefono, un tempo, il telefono fisso, quello con il filo (il guinzaglio che ti faceva stare seduto sulla sedia ad aspettare la chiamata dell’amato bene, della nonna lontana, della cugina di Palermo che chiama solo ogni tanto…), ma lo si usava con garbo, applicando anche un certo galateo (mai telefonare dopo le otto di sera e soprattutto ‘’non stare troppo al telefono che arriva la bolletta ‘’salata’’….).
La gente però a quel tempo viveva ancora, usciva, faceva sport- non giocava a ping pong con un avversario virtuale, né schiacciava palline colorate durante l’orario d’ufficio), non passava le ore a fissare il telefono grigio appeso alla parete o appoggiato alla consolle dell’ingresso. La gente esisteva, aveva ancora un colorito roseo, indipendentemente dalla stagione perché stava alla luce del sole e non era irradiata dal rettangolo magico. Si interagiva volentieri parlando, con il vicino di casa, con la mamma, con il fidanzato. E lo si faceva di persona, pensate. Senza mandare un avatar in rappresentanza, non si amava per procura né si litigava attraverso icone.
C’era una volta in cui esistevano i rapporti umani, fatti di parole, di gesti, di contatto fisico. La prossemica sopperiva alla carenza di parole, all’imbarazzo di dover scegliere i sinonimi. C’erano i profumi, la musicalità delle parole. La semplicità. E poi? Poi come in tutte le fiabe avviene qualcosa di destabilizzante, a volte arriva un orco, altre volte una strega malvagia.
In questo caso è arrivato il cellulare, che poi è diventato smart (in italiano significa furbo, e già sull’accezione del termine potremmo discutere). E fu il buio e poi di nuovo fu la luce. Il telefono si è allungato, rimpicciolito, appiattito, colorato, è diventato multifunzionale, compie cioè decine di funzioni al posto nostro, ci aiuta nel quotidiano e sembra che senza la vita non possa procedere.
Metto la sveglia al cellulare, imposto l’agenda, scateno l’inferno con le decine di applicazioni che mi dicono l’oroscopo del giorno, l’orario del treno, mi informano sul meteo, sulle calorie, sulla posizione dei pianeti, la benevolenza della luna, su dove si trova il bar più vicino. Il cellulare fa tutto ma come ultima cosa, credetemi, ultima davvero è quella di far parlare A con B. Manda messaggi, foto, video, contenuti multimediali. Sintetizza anche la voce, scannerizza documenti, abbellisce le immagini, altera la realtà per renderla migliore. Trova soluzione a ogni nostra domanda, basta connettersi al motore di ricerca e sa dirti perfino dove sei, con chi sei e perché. Casomai tu non lo sapessi già. Mi trovo in piazza del duomo? Perfetto, mi taggo, condivido con gli altri, mi faccio presente nel cyberspazio, dunque esisto.
E vissero sempre infelici e connessi è la frase perfetta per la fine di una fiaba moderna.