(di Maria Ilaria De Bonis) – Mi piacerebbe indire una moratoria ‘sociale’ sui pensieri violenti in rete. Proporre una catena umana di solidarietà e silenzio per i fatti e le persone presi nella morsa dell’assalto mediatico.
Vorrei che per Silvia, giovane donna rapita in Kenya nel bel mezzo del suo lavoro, si pregasse e si meditasse. Si facessero pensieri di incoraggiamento e non di risentimento.
Di rispetto per una professione (quella del cooperante) che ha una sua dignità e somiglia a quella degli inviati di guerra, dei missionari, degli attivisti, dei fotografi, degli operatori umanitari, dei medici. Rispetto per la famiglia, che ieri ha chiesto il silenzio stampa.
Vorrei che per lei si rimanesse in un silenzio consapevole.
Vorrei che anche per i ragazzi rifugiati rimasti senza centro d’accoglienza al Baobab di Roma, si facesse silenzio, se proprio non si riuscisse a far rumore di scarpe e di tacchi. Per portar loro sostegno e coperte.
Vorrei che perfino per le demolizioni di case abusive si tacesse.
L’abbattimento di rifugi, alloggi privati, insediamenti umani è sempre cosa sgradevole e violenta. Magari necessaria, quando serve a risanare un abuso edilizio o a ripristinare la legalità. Ma senza spettacolarizzazioni.
Se umanamente il rispetto è d’obbligo, dal punto di vista del Diritto e della Costituzione non tutti gli sgomberi sono uguali. Il gioco politico legalista tende a mettere sullo stesso piano le case abusive, le occupazioni fasciste, i centri d’accoglienza spontanei e preziosi, come il Baobab; i giacigli dei poveri senza tetto.
Per legge tra le varie categorie ci corre un abisso. Non esiste una par condicio delle demolizioni e non esiste un diritto all’abbattimento lineare.
Per una volta, per un giorno, per una settimana, un mese, un anno, diamoci la chance di riflettere senza vomitare parole; magari concediamoci la possibilità di andare e vedere con i nostri occhi quello che succede alla Tiburtina; dove dormono e come stanno i ragazzi sgomberati dal Baobab (perché centinaia di loro oggi dormono all’aperto, senza tenda e senza rifugio).
Mettiamo da parte l’odio rancoroso e scendiamo in strada con una coperta e un thermos in mano. Ne gioverà di certo la nostra anima.
E forse capiremmo anche meglio la scelta di Silvia che è arrivata fino in Kenya per stare dalla parte di chi non ha diritti.
Degli uomini e delle donne che noi fatichiamo ad accogliere perfino quando bussano discretamente alla nostra porta.
Silvia ha scelto di partire. Noi scegliamo di restare.
Ma partire o restare per noi occidentali dovrebbe essere in ogni caso una scelta di consapevolezza e di umanità. Si può restare e avere la stessa attenzione e lo stesso amore di chi parte. Chi sta e non fa, chi rimane senza agire, però, abbia almeno la decenza di non offendere, di non giudicare, di riflettere.
E se non riesce neanche così, che faccia un bel sonoro silenzio.
