(di Filippo Bocci) – In genere quando leggi un libro, se è bello, entri a far parte di una storia. A Sandro Campani, con I passi nel bosco, riesce una magia diversa, quella di portarti in un posto ma non come viaggiatore: tu, lettore, lì ci sei sempre stato.
Siamo in una valle dell’Appennino tosco-emiliano, replica fanta-letteraria di quella realmente esistente grossomodo tra i torrenti Dragone e Dolo, tributari della Secchia, a sua volta affluente del grande fiume Po: “… ascolta il torrente e gli sembra impossibile che arrivi fino al mare, passando proprio qui da questo buco”.

I luoghi, il bosco in particolare, sono i primi protagonisti di questo romanzo nascosto, diremmo quasi una ballata, un reading a più voci, un corale pieno di solisti, con i “personaggi principali” e le “comparse”.
È un piccolissimo mondo fatto di angoli infiniti, stradine, curve, pendenze, crinali, acqua, pietre, fango e naturalmente alberi, che assorbono l’essenza dei luoghi, ne conservano i segreti, creano inquietudine come nel bellissimo incipit: “Io temo l’odore dei salici…”.
E, poco più avanti : “… perché le foglie dei salici hanno un odore più grosso di quello che mostrano, c’è dentro troppo caldo e troppo suono, dovrebbero essere di carne, per giustificare quell’odore”.
Sarà proprio il taglio del bosco, la sua necessaria manutenzione, a fare da contrappunto alle violente tirate dei personaggi, che ruotano perlopiù sull’indecifrabile Luchino, figura “veloce e al contempo indolente”, che non compare mai fisicamente, ne sentiamo a malapena la voce, ma è continuamente nominato, ricordato, quasi evocato: “Non mi sbagliavo, lo avevo annusato. Il saltimbanco, giunto da chissà dove”.
Luchino incarna un’irriverenza innata rispetto a un destino già segnato, è quello a cui, forse solo nell’immaginario degli altri, riesce tutto semplice, che non conosce doveri e non si fa problemi; ha quella naturale arroganza della trasgressione che manda in bestia, e che nessuno sa o può imitare.
E la rabbia è l’altra grande protagonista di questa storia, che i personaggi declinano sbattendoci in faccia la ferocia obiettiva della verità, o almeno quella in cui vogliono credere, che li accende e li pungola.
C’è in loro un’intransigenza irragionevole nel raccontare e nel raccontarsi, che li porta a diventare ingiusti con sé stessi e con gli altri.
Le cose non succedono, è tutto già successo: semmai risuccedono, diverse, a seconda del punto di vista e della sensibilità della voce che narra, grazie anche a un accorto sfalsamento dei piani temporali.
Eppure, tutto quel che (non) è stato è destinato comunque a finire.
Il bosco di Campani è come Il giardino dei ciliegi disfatto veramente, una letteratura per tutte, imputridito come il rimpianto di vite di cui conserva le tracce abbandonate.
La natura anticipa la rovina e ne è parte. Il taglio degli alberi procura una resa dei conti drammatica ma trattenuta, arginata dalle ferree convenzioni del quieto vivere.
In questa piccola comunità, che sembra sospesa in una bolla atemporale, sono tutti furiosi ma fragili, meschini nella loro infelicità solitaria: ognuno sulla propria posizione, non riusciranno a dirsi le cose che pure già sanno.
Hanno però un maledetto bisogno di confessarsi a noi che li seguiamo nell’albergo diffuso di Betti, vedova taciturna, o su e giù dietro a Francesco, notaio e padre stremato da due figli diversamente carnefici, personaggio talvolta tenero e delicatamente ripiegato su sé stesso, sempre a cercare di parare i guasti del figlio minore Daniele, mascalzoncello da quattro soldi.
Oppure andiamo al fiume, a tener compagnia a Luisa quando non lavora al suo bar, o ancora a stupirci di Antonello, sempre a far di conto, odiato da tutti per i suoi soldi, prigioniero consapevole della sua avidità, tuttavia ricco di sentimenti che gli altri non gli sanno, e che non gli riconoscerebbero neanche scannati, ma noi possiamo.
Tutti hanno ricordi potenti, intimi, fatti spesso di rimpianti che la ruggine astiosa è capace di veicolare, e che il bosco può rivelare al lettore.
Sandro Campani, al suo quinto libro, il secondo per Einaudi, abbandona le architetture più morbide del Giro del miele e, con uso misurato del dialetto, si fa tecnico del suono, dà voce alla montagna con la forza della sua scrittura, cattiva, prepotente, affilata dai migliori arrotini dell’Emilia.
La frustrazione dei personaggi vive il più delle volte nella precisione dei vocaboli, nella maniacalità delle descrizioni che tengono a bada la piaga e il dolore delle cose.
E, alla fine, se sceglieremo con convinzione di arrivarci, i passi nel bosco saranno anche e soprattutto i nostri. Come nelle storie più belle.
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