(di Giulia Segna) – L’architettura, così come molti altri settori artistici e professionali, non ha resistito al fascino della tecnologia moderna: carta, goniometro e matita hanno lasciato il posto a render, occhiali tridimensionali e realtà virtuale, assicurando risultati davvero sorprendenti.
Un team di architetti, oggi, non è più composto dai soli disegnatori, ma da svariate figure professionali con competenze informatiche e digitali decisamente sofisticate.

B-hop ha incontrato Matteo Gori, 3D artist presso una società di architettura di Milano. “Il ruolo del visualizzatore – spiega – sta acquisendo sempre più importanza nella catena di montaggio di un progetto: il rendering è un passaggio fondamentale del lavoro poiché permette di dare una resa fotografica al disegno di partenza. L’edificio, l’arredamento o l’area urbana su cui il cliente ha chiesto di intervenire, viene rappresentata in un’immagine 3D. Il paesaggio che si ha davanti sembra fotografato, come se esistesse davvero”.
L’utilità del render è mostrare, con precisione, che aspetto avrà ciò che è stato richiesto, con la possibilità di apportare eventuali modifiche in itinere, senza dover stravolgere l’intero lavoro. Qualsiasi dettaglio, infatti, può essere aggiunto, eliminato o sostituito.
Per esempio, se il cliente è curioso di sapere quale effetto avrà la luce solare riflessa sui vetri dell’edificio commissionato, potrà essere accontentato. Se invece avrà bisogno di provare diverse tonalità cromatiche dei mobili per capire quale si adatterà meglio alle pareti della stanza, potrà chiederlo.

“Quasi tutte le belle immagini proposte dai dépliant dei più noti marchi di arredamento”, prosegue Matteo, “non sono foto ma render. Questo passaggio ha permesso di abbattere notevolmente i costi: il 3D artist si sostituisce al fotografo, al traslocatore, al designer, e non c’è bisogno di affittare uno studio per creare un set o utilizzare mobili da rivendere a prezzi stracciati. É tutto lavoro digitale”.
Ma l’innovazione tecnologica in architettura non si ferma qui. Al render standard si affianca quello “immersivo”, una immagine tridimensionale a 360 gradi: attraverso l’uso di particolari occhiali 3D come Oculus, Samsung Gear e HTC Vive, è possibile entrare all’interno del render.
“Prima lo si realizza al pc”, spiega Matteo, “poi lo si trasferisce all’interno degli occhiali tramite specifiche applicazioni. Quando si indossano le lenti, si viene catapultati dentro l’immagine”.
Anche in questo caso, l’utilità sta nel permettere al cliente di immergersi dentro al (suo) progetto, osservandolo da diverse prospettive e rendendosi conto delle eventuali modifiche da chiedere.
“La bellezza del render”, aggiunge Matteo, “è quella di poter ideare e inserire elementi artistici che, con il solo disegno computerizzato, non sarebbe possibile. Un tramonto, delle sfumature di colori, un tipo di vegetazione, delle figure umane per una resa ancora più realistica. É importante che l’immagine finale sia accattivante, che susciti emozioni, che racconti qualcosa oltre al mero progetto architettonico”.
Se nel render immersivo si sta fermi in un punto e, al massimo, si muove lo sguardo, nella realtà virtuale si può addirittura camminare e interagire con gli oggetti presenti: inforcati gli occhiali 3D, chi è dentro l’immagine può muoversi nello spazio circostante, accendere e spegnere la luce, chiudere e aprire le porte, ascoltare la musica, modificare materiali in diretta, far scorrere l’acqua del rubinetto lungo la mano.

Praticamente, come dentro a un videogioco.
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