Nato in Cile da genitori ucraini ebrei, “emigrato” a 24 anni in Francia, artista, autore di pièce e pantomime, romanziere, sceneggiatore di fumetti, regista di cinema, inventore del teatro panico, e della psicomagia, Jodo, sì insomma lui, Alejandro Jodorowsky non lascia mai indifferenti: che si tratti del suo modo di utilizzare i Tarocchi, dei suoi libri che disvelano percorsi per arrivare alla Coscienza o dei suoi (vecchi) film lo si può solo amare, oppure no. Idem per “La danza della realtà”: finalmente anche nelle sale cinematografiche italiane a partire da ottobre, è una pellicola intensa. Poetica. Fantasmatica, onirica. Appassionata, che pulsa nella sua stessa storia personale: un viaggio a ritroso in cui la finzione supera la realtà e diventa strumento di guarigione familiare. In pratica una sorta di autobiografia immaginaria, in cui i fatti e i personaggi sono reali ma vengono trasformati, vivificati dal capitale di trasformazione della vita che si trova in ognuno di noi.
“Abbiamo girato il film proprio nel paese della mia infanzia, Tocopilla (in Cile) che non è cambiato da 80 anni a questa parte, nella via dove si trovava la bottega dei miei genitori. E’ il solo negozio che era bruciato e io l’ho ricostruito per le necessità del film – spiega Jodorowsky ai giornalisti -; ho fatto alcuni ritocchi nel paese, riparando ad esempio l’asfalto della strada o ridipingendo il cinema. Mentre da bambino questa città mi ha rifiutato a causa della mia pelle bianca, del naso a punta (mi chiamavano Pinocchio), perché ero figlio di emigrati ebrei russi e tutto di me era in contrasto evidente con le caratteristiche di quel territorio acquisito dalla Bolivia e popolato di indios, grazie a questi lavori e alle riprese del film stesso sono diventato finalmente il “figlio ideale” della città: sono l’eroe che ha portato il filtro magico per salvare il suo popolo. Questo filtro magico è il cinema”.
Alejandro con la Danza della Realtà si è messo davvero a nudo: lo ha fatto metaforicamente nel film – raccontando la sua infanzia tra un severissimo padre comunista staliniano (interpretato dal figlio Brontis) e una madre accogliente e dai seni prosperosi che voleva fare la cantante lirica – ma non solo. Di sola pelle vestito si è infatti presentato anche allo scorso Festival di Montreal del Cinema (https://www.youtube.com/watch?v=TJqolXZO-Xs). Essenziale, nuda è stata persino la messa in scena: “ho detto al mio direttore della fotografia – racconta – che volevo un’immagine clinico-fotografica, non estetica. Volevo che la bellezza scaturisse dal contenuto, non dalla forma. Ho soppresso tutta la macchineria e la tecnica che circondano normalmente le riprese per mantenere soltanto un cameraman con la sua steadicam. Finito il film, ho rielaborato tutti i colori grazie al digitale. Questo film rappresenta una prodezza tecnica perché è stato realizzato in modo originale: ho ucciso l’estetismo per creare un’altra estetica”.
Non si creda, però, che la Danza della Realtà sia solo una pellicola utilizzata come atto psicomagico di guarigione della famiglia Jodorowsky: è soprattutto un cinema nuovo, che si contrappone all’industria nociva che produce il nulla, che distrugge il pianeta e annichilisce gli animi producendo falsi modelli. E’ un messaggio dirompente sulla bellezza: “non si può cambiare il mondo ma si può cominciare a realizzare il sublime: la propria bellezza. Quella che nasce dall’incontro con la realtà, anche quando questa realtà è fatta di sofferenza”. Di più: “siamo solo anime che tengono un corpo; tutti i conflitti che viviamo sono luce che ci consente di vedere e arrivare alla felicità”.
Detto così potrebbe sembrare indigesto, incomprensibile. Io ci provo: tra le poltroncine in cui si tiene la conferenza stampa mi “allungo” per porgergli la domanda che mi preme, urgente.
Ma allora, concretamente, signor Jodorowsky, qual è la strada, per tutti noi (intendendo, tra le righe, noi poveri diavoli non così artisti, deliziosamente visionari e creatori di bellezza come lei), per danzare la realtà vera ed uscire dall’illusione della crisi che contraddistingue questi tempi?
Alejandro si schermisce un po’: “Lei mi prende per un guru-dorowsky”. Una piccola pausa. Poi, lo sento, in fondo “cede” e risponde, partendo da lontano: “Un maestro Zen stava per iniziare il suo sermone quando un uccellino attaccò a cantare. Il maestro non parlò e tutti ascoltarono l’uccellino. Cessato il canto, il maestro disse: “Bene, il sermone è terminato”, e così se ne andò”. Mentre già penso che mi ha fregato con la storiella zen, ed è pronto a salutare, lui prosegue: “Cos’è il canto dell’uccellino? Chi sei tu, sei una persona sola o sei più “tu”? Io ho cinque linguaggi: quello corporale, fatto delle azioni; quello sessuale-creativo, fatto di desiderio; quello emozionale, dato dal sentire; quello intellettuale che si esprime con parole e idee. Ma questi non si parlano tra di loro. E’ solo attraverso il linguaggio dell’anima che si può arrivare all’unità, è solo l’anima che può “tradurre” e integrare in un’azione unitaria. La felicità interiore racconta, definisce l’anima. L’agire nel mondo, dunque, rivela la felicità interiore”. Devo sembrargli non convinta, ma che c’azzecca con la crisi, perché poi precisa: “Ognuno di noi deve sapere che è stato desiderato. Le nostre storie, la nostra infanzia non hanno importanza; i genitori ci hanno solo “ricevuto” ma se siamo nati è perché l’Universo ci ha voluto, ci ha desiderato”.
Dopo queste premesse, i consigli pratici: “quando la mente perde, ascolta sempre il tuo cuore; è importante non criticare più gli altri, non nutrire rancore, non aspettare di “essere qualcosa” per fare quello che si desidera autenticamente fare. Apprezza la vita, succeda quel che succeda. Con questa attitudine si sviluppa l’azione, nella più totale e assoluta onestà”.
La crisi, di conseguenza, si manifesterà per quello che realmente è: solo il prodotto di una certa “cinematografia” di basso livello. La realtà è la felicità della vita: tutto sta, semmai, nel cinema in cui si sceglie di entrare.
(foto allegate: © Pascale Montandon-Jodorowsky)