di Walter Falgio – Ettore Cannavera, 76 anni, da sempre il prete dei detenuti, fondatore della comunità di accoglienza “La Collina” a Serdiana, nelle campagne a pochi chilometri da Cagliari, ha scritto a Papa Francesco: «Da oltre mezzo secolo svolgo la mia missione pastorale al servizio degli ultimi, dei rifiutati, dei dimenticati. Di coloro che chiamiamo cattivi e di cui abbiamo bisogno per sentirci buoni: dei carcerati, che Lei incontra in ogni occasione che può».
Ha rivolto al pontefice il suo appello rendendolo pubblico in questi giorni pasquali: «Ogni mattina, al mio risveglio, chiedo nelle mie preghiere che mi venga concesso di essere un buon sacerdote. Non lo faccio per superbia, piuttosto per insicurezza: perché so che potrei fare di più per chi soffre e non ne sono capace. Ecco perché mi permetto di disturbare il Papa, per pregarlo di aiutarmi ad essere un prete migliore. E per questo avrei una preghiera: non potremmo istituire la Giornata mondiale del carcerato?». Le parole di Cannavera sono state raccolte in prima pagina dal quotidiano L’Unione Sarda e lui assicura: «Sono certo che siano già arrivate sulla scrivania di Francesco».
Insieme alla lettera di don Ettore in questi giorni è stata recapitata anche un’altra raccomandata stesa da un ex detenuto, Sergio Abis, indirizzata al presidente della Conferenza episcopale sarda, monsignor Antonio Mura. Si legge: «La Chiesa invita spesso i fedeli a rivolgere il pensiero ai sofferenti, ai disagiati, agli ultimi. Ad esempio, il 31 gennaio scorso era la Giornata dei malati di lebbra. Perché, allora, non istituire la “Giornata del carcerato”? In questo modo si inviterebbero tutti i sacerdoti delle varie diocesi sarde a dedicare l’omelia di una domenica al pensiero dei reclusi».

Abis è uno scienziato e scrittore che ha scontato una pena e ha voluto aderire all’appello di don Ettore ricordando, nel suo contributo, gli anni trascorsi dietro le sbarre: «Un terzo dei carcerati ha problemi di tossicodipendenza; un terzo problemi di sanità mentale; un terzo è costituito da extracomunitari che parlano a malapena qualche parola di italiano.
Nessuno dice mai che il carcere è un non luogo che ammassa decine di migliaia di poveracci che sono, sì, colpevoli di reati ma finiscono dentro, prima di ogni altra cosa, per problemi gravi di emarginazione, diseducazione, povertà spirituale».
Cannavera, che oggi è cappellano alla Rems di Capoterra, Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza riservata a detenuti con disturbi mentali, combatte la sua battaglia contro la galera a partire dal “minorile”:
«Il carcere per i ragazzi non ha alcun senso e non garantisce il reinserimento sociale. Al contrario, è proprio all’interno delle celle che un giovane impara a diventare delinquente a carico della collettività: un minore detenuto costa allo Stato non meno di 600 euro al giorno data la sproporzione tra la quantità di personale impiegato e il ridotto numero dei reclusi».
La soluzione don Ettore la indica e la persegue da tempo. Negli ultimi venticinque anni almeno centodieci ragazzi ospiti della Collina hanno potuto usufruire di una misura alternativa alla detenzione lavorando negli uliveti e nei vigneti con vista sul litorale del Poetto.
Burocraticamente definiti “giovani adulti”, compresi in una fascia d’età tra i 18 e i 25 anni, a Serdiana curano 1200 piante d’olivo, 4 ettari di vigna e l’orto. «Qui le porte sono aperte – racconta Cannavera – nessuno ha bisogno di scappare, tanto è vero che in tutto questo tempo, a differenza della percentuale di evasi dalle carceri, solo quattro ospiti si sono voluti allontanare dalla residenza. E seguire un giovane in comunità incide sulle risorse pubbliche per 30 euro al giorno».

I ragazzi guadagnano 800 euro al mese di cui metà deve essere versata nella cassa comune. «In questo modo prima di tutto riacquistano la dignità e un riconoscimento nella società – continua don Ettore – trovando appagamento ai loro bisogni. Se fossero rimasti in carcere avrebbero continuato a sperimentare la repressione e la falsità aggravando la devianza». Per il cappellano le responsabilità del disagio giovanile sono diffuse, albergano nella famiglia, nella scuola, nell’assenza di strumenti e strutture pubbliche in grado di sostenere il cammino a volte complesso dell’adolescente. Occorre investire nei percorsi educativi, a partire dal ruolo genitoriale.
Ettore Cannavera, nella sua lettera al Papa, descrive l’esperimento di vita comunitaria di lavoro, di serenità e di cultura basato sullo scambio e sull’accettazione: «Ci educhiamo tutti insieme, loro imparano a convivere civilmente col prossimo, noi impariamo ad accogliere chi ha sbagliato e a scommettere sulla loro decisione di non sbagliare ulteriormente. Chi termina di scontare la pena da noi, in comunità, smette di delinquere dopo la fine della condanna, al contrario di chi sconta la pena in carcere che ricomincia a delinquere una volta uscito.
Noi diamo al carcerato il diritto alla rieducazione, diritto che la nostra stessa Costituzione garantisce».
Chi è detenuto «è nostro fratello e io devo aiutarlo a riprendersi la vita. Rileggiamo i versetti di Matteo – annota don Ettore –: “ero carcerato e siete venuti a trovarmi”».