Nella rivoluzione agricola che si sta compiendo in tutta la Sicilia c’è chi regala sementi di grani antichi e know how agli agricoltori in difficoltà. Accade a Paternò, Contrada Sciddicuni, nella Valle del Simeto vicino Catania. Qui c’è la piccola comunità rurale Terre di Palike, basata sull’agricoltura naturale priva di sfruttamento del suolo e di manodopera, che da 6 anni lotta per la tutela del territorio e delle radici culturali.
Palike era il nome di un’antica capitale nelle zone del catanese, che riuscì a fronteggiare l’invasione dei greci pronti a distruggere l’identità delle genti sicule.
“Noi cerchiamo di difendere la nostra identità locale dalla globalizzazione e mantenere la sovranità alimentare”, spiega a b-hop il fondatore, Emanuele Feltri, 38 anni, una formazione in materie agrarie e scienze politiche.
Un nome noto alle cronache suo malgrado. Quattro anni fa Emanuele è finito su tutti i giornali per un grave atto di intimidazione mafiosa stile “Il padrino” compiuto nei suoi confronti. Quattro agnelli uccisi, uno di questi è stato sgozzato e la testa appoggiata sulla porta di casa. E poi incendi, furti, minacce.
Intorno ad Emanuele si è creato un grosso movimento di solidarietà, con marce e assemblee pubbliche e tanti giovani che si sono uniti al progetto. Ora a Contrada Sciddicuni vivono in cinque, con altri ragazzi che li aiutano di tanto in tanto.
Sono nate collaborazioni con Gruppi di acquisto solidale (Gas) ed altre realtà di economia solidale del centro-nord che però negli ultimi tempi funzionano un po’ meno. La comunità ha grosse difficoltà economiche e non riesce ad ottenere produzioni agricole in grado di soddisfare tutte le richieste, a causa della siccità e della mancanza di acqua, degli incendi e dei mille rivoli burocratici o piccole mafie che annientano la micro-agricoltura. Hanno 20 ettari di seminativi ma producono olio d’oliva, arance, ortaggi solo in metà della terra. Perché molti mezzi di produzione sono stati distrutti o rubati e ora hanno mezzi inappropriati, come una motozappa al posto di un trattore.
Però tentano di risollevarsi lo stesso. Da 5 anni coltivano anche 16 varietà di grani antichi siciliani, raccolti addirittura con la mietitura a mano.
“In un momento di crisi economica del settore agricolo in Sicilia – sottolinea Emanuele – pensiamo sia importante puntare su questi grani”.
Anche voi siete parte della rivoluzione dei grani antichi: come li coltivate?
La coltivazione di grani antichi è parte del nostro progetto di agricoltura naturale. Siamo partiti da uno studio legato a più di 60/80 grani antichi siciliani per cercare di capire cosa è rimasto di queste varietà, che costituiscono la nostra ricchezza: sono resistenti a diversi tipi di terreno, non hanno bisogno di particolari apporti di chimica e di concime ma soprattutto hanno un alto livello qualitativo, con caratteristiche proteiche e di digeribilità del glutine che risolverebbero tanti problemi di intolleranze. Abbiamo reperito i grani nei territori siciliani più nascosti e rurali e coltiviamo circa 16 varietà, dalla pilusedda alla scorzonera. Già dall’anno prossimo – quest’anno abbiamo prodotto 4-5 chili di varietà con i quali riusciamo a fare campi più estesi di un ettaro o due per mietere con una mietitrebbia – passeremo a campi più grandi. Mietiamo a mano perché sono campi piccoli dove una mietitrebbia non può entrare e se fosse una mietitrebbia di un contoterzista avrebbe in sé altri grani e contaminerebbe i grani che stiamo selezionando.
Cosa fate con le sementi?
Siamo arrivati a produrre sementi a sufficienza, e le abbiamo regalate ad agricoltori in difficoltà – ad esempio ad una cooperativa in Calabria – dando loro la possibilità di inserirsi nel mercato attuale con un prodotto diverso che tiene il prezzo, nonostante la burocrazia non elenchi i grani antichi tra quelli commercializzabili. Infatti non ci sono contributi europei. Nonostante ciò c’è una economia locale o solidale che chiede queste farine e questi grani. In più diamo un supporto tecnico e informativo agli agricoltori interessati.
Produrrete anche farine e pasta?
Sì faremo le nostre produzioni di farina e di pasta da alcuni grani che abbiamo selezionato. Pensiamo che pane e farina debbano dare sostenibilità economica al lavoro ma non diventare un business. E che chi ha le competenze debba diffonderle, per questo regaliamo sementi e sostegno informativo.
Da mesi non piove in Sicilia come fate?
In Sicilia siamo in piena crisi idrica e solo la piantumazione di alberi ci può salvare per far emergere la falda acquifera. Così abbiamo deciso di impiantare un bosco, anche per tirare su delle sorgentelle che erano scomparse. Quest’anno, dopo aver coltivato, non riusciamo a portare avanti la produzione perché non c’è più acqua irrigua. Il sistema idrico irriguo regionale non funziona più. E i pochi pozzi privati sono in mano alla mafia che chiede cifre esorbitanti: 180/200 euro per un’ora di acqua stagionale. Diventa assolutamente antieconomico produrre con quest’acqua. Quindi ci arrangiamo con piccole sorgentelle, che però già a maggio si erano prosciugate. Poi utilizziamo l’acqua che riusciamo a ricavare da due laghetti di argilla.
Riuscite a soddisfare lo stesso le richieste dei Gas (Gruppi di acquisto solidale) ?
In realtà ci mordiamo un po’ le mani perché abbiamo costruito una rete alternativa di economia solidale che vorrebbe produzioni che non riusciamo a garantire. Speriamo di trovare una vena per fare un pozzo autonomo altrimenti dobbiamo inventarci altre cose. Non vorremmo lasciare il posto perché per noi è importante continuare il lavoro su quella collina.
Da due anni non avete più ricevuto atti intimidatori. Come vi siete mossi e come si è conclusa la vicenda?
Forse il nostro modo di fare non troppo spavaldo, una presenza costante e seria è stata rispettata. So che sono stati fatti arresti ma legati ad altre indagini però non ho saputo più nulla. Chi seguiva le indagini – carabinieri – sono stati spostati in altre città e non sappiamo nulla. So che in alcune fasi non potevano garantirmi la sicurezza. Non so se c’è un supporto istituzionale. So solo che siamo soli in un territorio in cui ci siamo esposti.
Perché hanno colpito proprio voi?
Abbiamo rifiutato un discorso legato al controllo del territorio e ci siamo trovati al centro di una zona franca. Con le mie pratiche politiche di denuncia e di attivismo ero un elemento che dovevo essere espulso dal territorio. Ho lavorato anche in altre zone della Sicilia, ognuna aveva le sue difficoltà. Quello che a noi preme è stimolare le coscienze. Perché se tutto questo diventa una normalità da accettare la Sicilia non può ripartire. Vogliamo far capire non solo che abbiamo dei diritti ma che la normalità è un’altra cosa. C’è un altro modo di vivere e di lavorare.
In Sicilia la mafia rurale quindi non è sparita…
La mafia rurale è più presente più che mai. E’ partita anche una inchiesta sulla mafia legata ai contributi Agea. Ci sono gli interessi delle multinazionali, intenzionati a far decadere il nostro tipo di agricoltura. Ricordiamo che in Italia l’agricoltura è costituita per l’80% da microaziende. Invece tutti i contributi vanno alle grosse aziende. La Zonin ha comprato tutti i territori della provincia di Trapani per produrre vino. C’è tutta un’economia legata ai contributi Agea, ci sono pastori mafiosi che vanno a incendiare alcuni terreni per avere i contributi. Contributi per i quali non c’è bisogno nemmeno di avere il certificato anti-mafia. Questo è il business.
La popolazione locale è stata solidale?
A parte rari casi c’è stata poca solidarietà dalla popolazione locale. Anzi si è preferito far girare leggende metropolitane contro di noi. Diffamarci piuttosto che sostenerci. Ma ne ero consapevole fin dall’inizio. Anzi aver organizzato una grande marcia di solidarietà con più di 600 persone e tante assemblee è stato tanto. Un episodio, tra tanti, rappresenta per me un grande risultato: anni dopo ho incontrato alcuni ragazzi, di notte, vicino ad un pescheto. Uno di loro mi conosceva, era di Paternò. Mi ha abbracciato e mi ha detto la mia storia l’ha motivato a riprendere in mano l’agrumeto del padre per creare un pescheto. Sorvegliava di notte le pesche dagli incendi perché non poteva pagare la guardiania. Ma il sostegno nel tempo si è affievolito molto. Finché sei il soggetto che finisce sul giornale ti chiedono prodotti, ma quando non riesci a produrre tutti scompaiono. Per cui non è semplicissimo.
Avete però fatto un grande lavoro a livello culturale. Siete soddisfatti?
Dopo sei anni dobbiamo ricaricarci perché siamo stanchi. Lavoriamo 7 giorni su 7 e non possiamo programmare vacanze. C’è un prezzo da pagare e lo stiamo pagando, ma speriamo porti dei risultati. La nostra è una scelta forte e molto impegnativa. Quello che riusciamo a fare lo dividiamo equamente. Ma quando si perde una produzione perché non ci sono acque irrigue come si fa? Speriamo di riuscire a trovare acqua con la trivella e riuscire a produrre cose belle.