“Giustizia ritardata è giustizia negata”. Certo, a suo tempo il barone di Montesquieu non avrebbe potuto neanche figurarsi gli ormai proverbiali ritardi della giustizia italiana, né avrebbe potuto immaginare l’ultima, complessa querelle, in corso con rimbalzi di accuse fra le parti in causa, per la definizione dello status dei giudici di pace: una categoria istituita nel 1991, ancora oggi al servizio dello Stato senza un inquadramento definitivo, lavoratori precari pagati sostanzialmente a cottimo e privi degli elementari diritti e tutele dei lavoratori.
Quando fu introdotta, ormai ventisette anni fa dall’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli, la figura del giudice di pace – avvocato abilitato all’esercizio della professione, magistrato a tutti gli effetti, nuovo strumento per una giustizia più diretta a contatto con i cittadini – fu accolta con favore dall’opinione pubblica.
Si sperò che fosse almeno in parte archiviata la prassi dei processi infiniti, delle cause bloccate negli uffici dei tribunali, delle udienze rimandate per carenza d’organico.
Poi, si sa, la piena attuazione delle funzioni dei giudici onorari ha subito interruzioni, è andata per tappe e tuttavia oggi i giudici di pace hanno competenza sul 40% circa delle controversie.
Un lavoro quotidiano di migliaia di professionisti, che esaminano e chiudono casi in campo civile, penale e amministrativo, sottraendoli all’intasamento dei percorsi giudiziari ordinari.
Ora però la categoria è in rivolta a causa del decreto legislativo 116/2017 che ridefinisce le competenze dei giudici di pace e ha acceso una vigorosa protesta, rivolta al ministro della Giustizia Andrea Orlando e ai vertici dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), l’organismo a cui è iscritto circa il 90% dei magistrati italiani.

Per capire meglio i perché della protesta b-hop ne ha parlato con Alberto Rossi, avvocato, giudice di pace e segretario generale dell’Unione nazionale giudici di pace (Unagipa):
“La riforma – ci spiega Rossi – fortemente voluta da Anm e duramente contestata dalla categoria, nell’accorpare le due figure ben distinte dei giudici di pace e dei giudici onorari di Tribunale (G.O.T.), sostanzialmente cancella gli uffici dei giudici di pace, già dal 2016 diretti dal presidente di Tribunale, accorpandoli ai Tribunali, creando una nuova figura ibrida di magistrato onorario, il Giudice onorario di pace (G.O.P.), contemporaneamente assegnato all’ufficio del Giudice di pace ed all’ufficio del processo in Tribunale, e privato delle guarentigie costituzionali di indipendenza ed imparzialità”.
“Il nuovo G.O.P. sarà assoggettato alle direttive del magistrato di carriera, non solo nell’organizzazione del suo lavoro, ma persino nell’esercizio della sua funzione di giudice, specie all’interno dell’ufficio del processo, ove si limiterà a predisporre gli atti processuali del magistrato professionale sotto la sua direzione, “in aperta violazione dell’articolo 101 della Costituzione”, denuncia Rossi.
La protesta dei giudici di pace contro la nuova riforma rivendica innanzitutto diritti di categoria:
“Il giudice di prossimità che assicurava ai cittadini un accesso immediato e diretto alla giustizia – precisa -, è destinato a sparire ed al suo posto arriverà un ‘postlavorista’ senza motivazioni o preparazione specifica, impegnato appena due giorni a settimana, con incompatibilità limitate all’esercizio della professione di avvocato, e quindi sostanzialmente un lavoratore subordinato pubblico o privato (status sino ad oggi vietato per l’esercizio dell’attività di giudice di pace) che farà il magistrato a tempo perso, giusto per arrotondare lo stipendio”.
“La sua condizione di precario impegnato in più attività lavorative – prosegue – costituirà un gravissimo vulnus alla imparzialità e professionalità del giudice di pace, non solo demotivato nell’esercizio delle funzioni di magistrato, ma anche bistrattato sotto il profilo del trattamento economico e previdenziale, con un compenso annuo fisso variabile fra 12.000 e 16.000 euro lordi e contributi previdenziali integralmente a suo carico”.
“Questa nuova figura – puntualizza -, che nulla preserva dell’originaria figura del giudice di pace, dovrebbe esercitare la funzione di giudice, nella sostanza, per un compenso netto mensile fra i 500 ed i 700 euro netti al mese, ossia molto meno dello stipendio di una badante o di una babysitter”.
Secondo Rossi, i danni finiranno col ripercuotersi inevitabilmente sui cittadini:
“Il nuovo giudice onorario di pace si occuperà dell’80% dei processi civili, sia all’interno dell’ufficio del Giudice di pace, che raddoppierà le sue competenze, sia all’interno dell’ufficio del processo nei Tribunali, con la conseguenza che, in ragione del suo impegno ridotto, della sua limitatissima professionalità, della sua totale subordinazione al magistrato professionale, il cittadino si ritroverà nella maggior parte delle cause davanti ad un non-giudice, eterodiretto, dipendente e parziale, che non potrà mai assicurargli giustizia”.
Inoltre, si perderà il peculiare rapporto fra cittadino e giudice di pace:
“Dinanzi a noi – sottolinea Rossi – il cittadino può difendersi personalmente, può addirittura presentarsi direttamente in udienza per esporre le sue ragioni ed introdurre una causa civile o una procedura conciliativa seduta stante, mediante redazione di un verbale, da parte del giudice, che costituisce l’atto introduttivo del processo”.
“Ovviamente per fare questo lavoro occorre passione, equilibrio, capacità di ascoltare e capire i problemi delle persone, tutte qualità ed esperienze che con la riforma andranno perdute, allorquando arriverà il nuovo giudice onorario di pace part-time, dopolavorista, demotivato ed indaffarato in ben altri impegni per poter anche solo prestare attenzione ai bisogni dei cittadini”.
“Con la nuova riforma – conclude amaramente Rossi – il funzionamento della giustizia subirà un rallentamento spaventoso, e i processi dinanzi al giudice di pace, dall’attuale durata media di un anno, si rallenteranno sino a sei, sette anni in media, con punte anche oltre i dieci anni di durata.
La controversia si è ulteriormente inasprita, con repliche accese fra le parti, dopo il lungo servizio che la trasmissione Report di Rai tre ha dedicato, il 19 marzo scorso, al problema della magistratura onoraria nel suo complesso.
A stretto giro, con un comunicato ufficiale del 23 marzo, la giunta dell’Associazione nazionale magistrati, pur “riconoscendo il ruolo fondamentale dei magistrati onorari” e auspicando “soluzioni legislative a tutela dei diritti dei magistrati onorari nel rispetto della Costituzione”, ha ribadito il “limite invalicabile” rappresentato “dall’impossibilità di stabilizzazione nella pubblica amministrazione, sia in quanto trattasi di funzionari onorari sia in ragione del vincolo insuperabile del concorso pubblico”.
All’Associazione nazionale magistrati hanno risposto sia i giudici di pace, con una ferma difesa del loro diritto a ricevere tutte le tutele costituzionali pubblicata il 24 marzo sul sito ufficiale dell’Associazione nazionale dei Giudici di pace, sia Sei luglio. Movimento per la riforma della Magistratura onoraria, con una lettera aperta del 25 marzo al neo-presidente dell’Anm, Francesco Minisci.
Insomma, un conflitto complesso e combattuto su più fronti fra il Ministero della Giustizia e i giudici onorari e tra questi ultimi e i giudici togati.
Una brutta pagina ancora aperta, che i giudici di pace non hanno intenzione di chiudere senza aver prima ottenuto merito e riconoscimenti cui ritengono di avere diritto.
Perciò hanno già annunciato un nuovo mese di sciopero dal 9 aprile fino al 6 maggio.
Nella urgente ricerca di una soluzione a questa disputa, insostenibile per la già troppo farraginosa giustizia italiana, sarebbe utile riascoltare il monito di Pierre-Joseph Proudhon:
“La giustizia è la stella centrale che governa la società, il polo intorno al quale ruota il mondo politico, il principio e la regola di tutte le transazioni. Nulla avviene fra gli uomini che non sia in nome del diritto, nulla senza invocare la giustizia”.