Per una di quelle nude coincidenze che assumono l’abito della fatalità, mi trovavo a Lampedusa nei giorni immediatamente successivi alla tragedia del 3 ottobre 2013, durante la quale furono recuperati i corpi di 366 migranti.
I ricordi di quella vicenda sono lampi: la lucina rossa che indicava durante la notte il luogo del naufragio, tanto vicino alla spiaggia che sembrava potersi toccare, l’atmosfera di rabbia degli isolani trattenuta dal lutto, la terra che appariva progressivamente sprofondare a ogni bara arrivata sul molo, gli occhi rossi del vescovo mandato dal Papa, gli sguardi sconvolti di coloro che avevano visto i corpi, le oneste menzogne dei giornalisti, gli aerei rapaci dei voli di Stato, la strage ulteriore delle promesse.
Quel giorno ha cambiato qualcosa in me e quasi nulla nel resto del mondo, ma quel giorno ha cambiato moltissimo Lampedusa.
Per quel perverso meccanismo dell’autocommiserazione che trasforma le vittime in carnefici o per quei salti logici che appaiono comprensibili solo psicologicamente, l’isola si è trasformata suo malgrado in simbolo, in marchio, in dovere mondano.
Mentre si chiude la porta dell’Europa si apre quella degli Oscar, dei personaggi, del Nobel, dei Claudio Amendola, dei sindaci buoni, dei medici buonissimi, dei convegni obbligatori e dei Grand Prix giornalistici. Dove vai se Lampedusa non ce l’hai?
Chissà se gli abitanti dell’isola si sono assoggettati anche a questo diabolico risarcimento con la loro solita mitezza francescana, pronta a esplodere in repentini sfoghi di aggressività bestiale.
Chissà se ancora lasciano il latte e i biscotti davanti alla porta di casa per quelli che arrivano di notte da non si sa dove e si aggirano nel perimetro invalicabile di Lampedusa, come mi raccontarono una sera di ottobre alcuni della parrocchia, durante una mesta cena dalla parte dell’isola dei Conigli.
La notte era fresca e nera come solo a Lampedusa le notti sanno essere. Senza luci, a parte quella rossa che indicava il luogo del naufragio che sembrava potersi toccare.