“Ridendo e scherzando” se n’è andato anche Ettore Scola, forse l’ultimo esponente non di un cinema che non c’è più, perché certe opere godranno di imperitura gloria, ma di un modo di pensare e vedere il mondo che non c’è più.
Più volte e a più riprese l’abbiamo sentito definire, su giornali e televisioni ma anche da addetti ai lavori: “Maestro”. Innegabile, certo! Ma la definizione potrebbe, anzi è, riduttiva. Maestro è chi insegna. E nel suo caso lui non ha né insegnato né fatto vedere come si facesse il cinema.
Scola ha fatto semplicemente cinema, il suo. Nel corso della sua lunga carriera, spesso passata in secondo piano agli occhi di molti e relegata a “nicchia” da logiche commerciali del grande schermo, più che maestro si è fatto interprete di un Paese che si è trasformato davanti ai suoi occhi. Il suo cinema, e ancor prima i suoi “scarabocchi” alla rivista umoristica “Marc’Aurelio”, fino ad arrivare ai suoi ultimi lavori, sono stati lo specchio di un’Italia che ha mutato il suo modo di essere nella cultura e negli usi. L’Italia come musa e lui come poeta, che si è lasciato ispirare cantandone, con garbo e con un filo di voce, quella educata di chi non vuole disturbare, le vicissitudini e i vizi.
Non a caso tempo fa disse, con quell’acume e quella bonomia che spesso abbiamo visto, tipici di un padre che vede cadere il proprio figlio mentre impara ad andare in bicicletta:
“Nel piccolo italiano medio c’è una zona nobile, un soprassalto di dignità che non arriva all’eroismo, ma che lo spinge ad agire, anche solo con una dimostrazione di affetto e di appoggio all’amico”.
E ancora, nel suo ultimo lavoro (“Ridendo e scherzando”, un documentario in cui le figlie del regista hanno ripercorso la carriera del padre) inizia così il viaggio a ritroso della sua vita:
“Ho orrore delle sicurezze, della mancanza di dubbi, dell’autostima… se l’Italia partisse dai propri limiti invece che dalle proprie virtù, andrebbe meglio”.
Una bonarietà e un’onestà intellettuale che non hanno mai fatto sconti, nemmeno a se stesso. In una recente intervista, fattagli in occasione dell’uscita di “Ridendo e scherzando”, ha confessato che essendo “molto pigro” è stato Vittorio Gassman a fargli fare il regista, un “mestiere da bugiardo” in cui “devi fingere di sapere tutto, ognuno della troupe ha una domanda e vuole la risposta da te. Come se il regista fosse un oracolo, ma anche l’oracolo di Delfi era approssimativo, al povero Edipo disse ‘vai a letto con tua madre ma lei non lo saprà, ammazzi tuo padre ma tu non sai chi è tuo padre’, si barcamenava”. “Poi – ha spiegato – ho avuto il privilegio di conoscere persone migliori di me, Amidei, De Sica, Fellini, che ho potuto emulare, copiare. Il segreto è essere un po’ ladri. Ho rubato da tutti”. Un ladro gentiluomo che ha restituito molto di più di quel che ha rubato.
Un galantuomo che ha raccontato l’essenziale, anche se spesso l’essenziale era grottesco o inverosimile. Mutuando un termine dalla letteratura statunitense degli anni settanta-ottanta il suo lavoro si potrebbe definire “Realismo sporco”, dove l’autore porta la narrazione ai suoi elementi basici, minimali, essenziali. Non ci dice una sua verità, il narratore non è onnisciente e non si picca nemmeno di esserlo, ma lascia che sia il contesto dell’opera a suggerire al lettore, in questo caso allo spettatore, il significato più viscerale del suo lavoro.
Sempre chiedendo aiuto alle materie nobili, in questo caso la filosofia, gli Stoici nella dottrina della predestinazione teorizzavano il fato come un destino ineluttabile scritto dal Logos al quale non ci si può sottrarre. E forse è così, perché se Dio o chi per Lui ti ha dato un dono, è difficile venirne fuori se non lo si asseconda.
Ed è così che il Logos, gli dei, e una comune coppia di genitori di Trevico hanno consegnato alla storia del cinema non un regista molto dotato e un artista, ma un artigiano che, al pari e allo stesso tempo al contrario del falegname che leviga il legno per toglierne i difetti, ha levigato la realtà, ha fatto l’amore con i suoi difetti, e ce l’ha restituita più vera di prima.
Un artigiano che a 84 anni ha deciso che poteva bastare così.