Svendere beni e servizi pubblici alle multinazionali americane e in cambio permettere a quelle europee di accaparrarsi i loro. È questo, in due parole, lo scopo del TTIP, acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership. Si tratta di un accordo sul commercio e gli investimenti che Commissione europea e governo degli Stati Uniti stanno negoziando in segreto dall’estate 2013, con l’intento di creare la più grande area di libero scambio del mondo, un canale commerciale che varrebbe il 40% del PIL globale. Tutta la disapprovazione per il modello di sviluppo imposto da un accordo come il TTIP confluirà domani, sabato 18 aprile, in una Giornata globale contro i trattati di libero scambio. Solo in Italia la Campagna Stop TTIP ha organizzato una trentina di eventi su tutto il territorio, coinvolto 200 realtà fra movimenti e associazioni e partecipa alla petizione europea (1,7 milioni le firme raccolte) per chiedere l’immediato arresto dei negoziati.
Le trattative avvengono sotto la pressione continua delle grandi multinazionali operanti su entrambe le sponde dell’oceano, smaniose di aprire flussi più ampi per lo scambio di merci. Ma l’obiettivo principale, mentre lo spettro del Dragone cinese incombe sul primato economico degli Stati Uniti, è riaffermare la supremazia geopolitica dell’Occidente. A qualsiasi costo. Per questo il bersaglio cui puntano i negoziatori e le lobby dell’industria non è tanto quello degli ostacoli doganali al commercio, bensì quello dei regolamenti. I colossi dell’energia, dell’agroalimentare, delle telecomunicazioni e del settore farmaceutico vogliono beneficiare di un abbattimento delle cosiddette “barriere non tariffarie”, ossia tutta quella serie di normative a tutela dei servizi pubblici, dell’ambiente, della salute. La posta in gioco, nei negoziati sul TTIP, sono le privatizzazioni del settore sanitario, dell’istruzione e dei beni comuni come l’acqua. L’obiettivo sarà raggiunto con l’apertura all’investitore privato di comparti considerati da sempre un bene pubblico.
Come avverrebbe questo cambio di modello culturale che si sta profilando all’orizzonte? In primo luogo tramite un’armonizzazione dei regolamenti in vigore nei due blocchi, un livellamento che, per snellire i commerci e facilitare le importazioni, deve giocoforza comportare delle rinunce. Per l’Europa, queste comprenderebbero l’abbandono del principio di precauzione, sancito dal Trattato di Lisbona, firmato nel 2007. In base a quel principio, il nostro continente impedisce la vendita di qualsiasi prodotto di cui non sia stata preventivamente accertata la sicurezza. Questo comporta per le aziende una spesa maggiore per i controlli, che negli Stati Uniti non esiste: ogni sostanza chimica, prodotto cosmetico o agricolo viene commercializzato senza troppi accertamenti. Sta al consumatore, se si ammala, dimostrare che il produttore ha messo sul mercato un veleno. Un sistema del genere, dove l’onere della prova è scaricato sull’utente finale, consente un bel vantaggio alle imprese: quello stesso vantaggio vorrebbero averlo anche nell’Unione europea.
Non è un caso che le grandi corporation dell’agroalimentare, da Monsanto in giù, siano uno dei gruppi che fa maggiori pressioni sul governo americano per arrivare a una stipula dell’accordo entro quest’anno. Ma non sono soltanto gli OGM a spaventare milioni di cittadini europei che, insieme alle ONG in difesa della società civile, hanno costruito una campagna di protesta che sta crescendo in tutto il continente. Tutti i settori della nostra vita sono oggetto di trattativa: i dati personali, il lavoro, la scuola, la sanità, il settore energetico, l’ecosistema.
Il rischio che un abbattimento delle tutele porterebbe un degrado della qualità della vita, un impoverimento della popolazione e una maggiore disuguaglianza, è concreto. Senza contare che i governi nazionali sarebbero del tutto inermi di fronte all’operato delle rispettive imprese. Immaginate che una compagnia energetica intenda costruire una centrale a carbone sul nostro fiume Po, e voglia scaricarvi dentro le acque contaminate che utilizza. Se l’amministrazione volesse impedirglielo potrebbe chiudere l’impianto. Il problema è che rischierebbe una causa miliardaria, perché il TTIP prevede un meccanismo di tutela dell’investitore che lo legittima a denunciare lo Stato quando quest’ultimo adotta provvedimenti che ne intaccano il profitto. Non solo: la compagnia potrebbe trascinare il governo non già davanti ai magistrati italiani, ma presso una corte di arbitrato internazionale, composta da avvocati privati legati a doppio filo con le imprese. Per non perdere miliardi di euro, lo Stato sarebbe costretto a ritirare il sequestro, e il gestore della centrale potrebbe tornare ad inquinare il Po. Non è un’ipotesi, perché questa esatta vicenda è accaduta in Germania, dove il governo ha stipulato con la Svezia un accordo simile al TTIP. È accaduto in Uruguay e Australia, dove la Philip Morris ha citato in giudizio i governi perché obbligavano le multinazionali del tabacco a vendere le sigarette in pacchetti tutti uguali. È accaduto in oltre cento Paesi del pianeta che firmavano accordi commerciali con questa clausola di tutela dell’investitore.
Siamo molto vicini ad un radicale cambio di paradigma culturale, che comporterebbe rischi incalcolabili per la società civile, italiana ed europea. Per questo centinaia di organizzazioni ambientaliste e per i diritti sociali si sono unite nella campagna Stop TTIP, mettendo non pochi bastoni fra le ruote della Commissione Europea e del governo USA. Le trattative sono rallentate, alcuni dati sono trapelati dal segreto grazie a Wikileaks e all’azione dei movimenti, e la preoccupazione è cresciuta ancora.
La battaglia è ancora lunga e l’esito incerto, ma il 18 aprile sarà l’occasione per ricostruire una rete globale che fa della solidarietà e del rispetto del vivente la sua stella polare.