(di Maria Ilaria De Bonis) – Quella di Asinitas è una scuola diversa. Le lezioni non si basano su libri di testo o grammatiche precostituite, ma su un materiale didattico ‘vivo’. Gli studenti dei corsi sperimentali di italiano sono richiedenti asilo, migranti, donne straniere con i bimbi. Si inizia in cerchio, col movimento corporeo. Con un abbraccio. Uno sguardo. E dunque, col sentire di esistere a partire dalla presenza fisica.
Le persone che vogliono apprendere la lingua vengono dal Mali, dal Ghana, dalla Nigeria, dal Bangladesh, dalla Costa d’Avorio.
Il metodo è un mix tra il Montessori classico, tecniche di laboratorio teatrale, varie forme di creatività didattica ed artistica. Canto, film e musica fanno parte del metodo.
L’idea è quella di «meticciare con percorsi artistici», spiega a b-hop Cecilia Bartoli, fondatrice della onlus Asinitas.
Appena mettiamo piede nella sala l’impressione è di grande libertà: in questa scuola scopri l’attenzione per le storie, in posizione paritaria tra chi impara e chi insegna.
Forse perché chi insegna in realtà ascolta e chi impara racconta di se e viceversa.
L’aula è piena di colori, disegni, diapositive, foto.
Nella sede di via Ostiense gli studenti divisi in gruppi stanno finendo un lavoro che si basa sulla costruzione di una storia per immagini. Ognuno prende spunto dal proprio vissuto quotidiano.
C’è B. ad esempio, un ragazzo di 23 anni che viene dal Gambia ed è in Italia da più di quattro anni, oggi alle prese con la descrizione di una moschea. Poi G., nigeriana: mentre lei impara l’italiano la figlia di pochi mesi gioca su un tappeto.
«Asinitas nasce nel 2005 con l’obiettivo di indagare le radici della condizione della migrazione, dell’esilio e più in generale dell’emarginazione – spiega Cecilia – Ci siamo posti delle domande di base: a chi serve una nuova lingua? Come e perché impararla? Certamente serve per la praticità: andare dal dottore, cercare lavoro, ottenere i documenti. Ma alla fine i problemi di queste persone sono più vasti».
Spesso sono ferite aperte durante il lungo viaggio che li ha portati in Italia. Altre volte sono drammi di separazioni, vite spezzate. O anche relazioni umane degradanti, violenze subite.
«Il senso è raccontare il sé. Sanare la grande frattura di vita. Noi puntiamo alla cura della persona ed è la qualità immaginativa che fa la differenza. L’oralità. Quando le persone non sono traumatizzate imparano più facilmente. Crediamo che possano attivare la loro resilienza».
Ad Asinitas si dimenticano performance, brutti voti, tempi stretti, errori grammaticali. Si punta alla ‘cura’ dell’anima. Si ride. Molto. Si impara con gioia.
«Lo spazio e il tempo sono fondamentali per la resilienza. Qui cerchiamo di dilatarli – dice ancora Cecilia – L’apprendimento è un cambiamento: bisogna che la persona non abbia paura. Il bravo maestro crea fiducia, altrimenti lo studente non è disponibile ad imparare».
Il clima che si respira è di «alta confidenzialità». Tanto che spesso escono fuori i racconti intimi, anche di violenze subite, come in terapia di gruppo.
«La ragione per cui siamo tanti è quella di avere più orecchie – dice Cecilia – per creare ‘bolle di visibilità».
Le chiama così lei. Bolle. Cioè quei momenti in cui i ragazzi rompono gli argini della resistenza e della paura e magari confidano un ‘segreto’.
«Ricordo quella volta in cui Sofia, 20 anni, nigeriana, ha descritto quello che molto verosimilmente era stato il suo ‘pappone’. In realtà si trattava di descrivere il volto di una persona brutta. E lei ha preso spunto proprio dalla sua vita e si è liberata», racconta.
In quei casi scatta la bolla invisibile. Uno degli insegnanti può scegliere di allontanarsi dal gruppo assieme alla persona, oppure di rimanerci dentro ascoltando la confidenza con altre orecchie.
«L’italiano non può essere solo grammatica, loro stanno raccontando qualcosa di importante!».
Insegnanti e volontari sono l’altra cosa bella di Asinitas: almeno due insegnanti per ogni gruppo, in tutto una decina. In parte sono volontari in parte no. Molti lavorano ad Asinitas e per qualcuno questa è una professione a tutti gli effetti.
C’è Luciana ex professoressa di latino e greco, che dice: «i nostri ragazzi hanno delle vite complicate, qualche volta c’è l’impossibilità a venire a lezione. E’ tosto, perché sei nudo, senza guscio. E questa è anche la nostra grossa motivazione ad esser qua».
Uno dei coordinatori, Giorgio: «ai livelli più alti dell’apprendimento della lingua sono più stimolati, più invogliati a venire. Quando i figli di queste mamme cominciano ad avere sei-sette anni, loro sentono la differenza culturale ed è una grossa frustrazione.
«Perché saltano i ruoli e allora vengono qui ad imparare l’italiano anche per recuperare un rapporto e un ruolo genitoriale».