di Claudia Babudri – Qual era lo spazio riservato alle donne nel Medioevo? Esiguo, a dirla tutta.
Nel XII secolo, il duca di Normandia Enrico II incaricò Benedetto di Sainte – Maure di scrivere un’opera ispirata alla grandezza della sua famiglia. Il chierico compose il Roman de Troie, una narrazione d’armi sviluppata attraverso le epiche gesta di Ettore e Achille in vesti cortesi.
Pur riservando uno spazio ridotto ad alcune donne, è uno scritto fondamentalmente misogino.
Secondo il grande medievista Georges Duby, Sainte-Maure si sforzava di “sedurre dame e damigelle, descrivendo minuziosamente vesti, mantelli, specchietti, fronzoli, e facendo abbandonare ai turbamenti d’amore i paladini usciti per un attimo dalla loro corazza” (G. Duby, 2008).
La narrazione di Sainte-Maure esprime in generale la considerazione riservata al gentil sesso: la questione femminile creava scompiglio. La donna doveva essere controllata e sorvegliata.
Per i contemporanei, la ribelle, incarnata dal mito della guerriera dalle trecce sciolte e la spada, era sia incubo che sogno.
Infatti, le donne erano capaci di scatenare preoccupazioni e grandi passioni, spesso violente e non consensuali.
Emblematico è il caso di Rollone, condottiero normanno e gran navigatore, il quale lasciò la vita profana e gli ardori turbolenti della gioventù per sposarsi. Matrimonio e civiltà andavano di pari passo.
Attraverso il matrimonio, la donna acquisiva dei diritti in più, avere dignità sociale e parità (seppur di letto) con il marito.

In generale
le dame contribuivano all’equilibrio tra gli Stati, venendo cedute dai familiari per motivi politici.
Lo storico francese Dudone di San Quintino ci descrive la celebrazione di questi matrimoni, spesso organizzati nel cuore di foreste di frontiera.
Le dame, oramai spose legittime, avevano il compito di garantire la pace tra gli Stati, generando un erede.
Questa concezione riduttiva e misogina della donna, diventava più dura in caso di guerra. Ad esempio, nel X secolo, all’epoca di Luigi IV d’Oltremare le dame di corte erano assegnate dai sovrani vincitori ai propri cavalieri come bottino insieme alla terra.
Prima che la Chiesa stabilisse regole più severe sul matrimonio, i sovrani avevano la libertà di concupire più compagne.
Rodolfo il Glabro, monaco benedettino vissuto tra X e XI secolo, le definisce concubine.
Queste donne erano oggettificate e senza diritti: i regnanti generavano un gran numero di figli.
Parliamo di un tempo selvaggio, in cui signori rapaci si divertivano senza vergogna con le donne giovani e nubili presenti nelle loro case. Prima della conversione al cristianesimo, nei regni barbarici non era raro trovare giovani principi figli del tradizionale more danico, ovvero della poligamia.
Questo fenomeno preoccupava i dotti del tempo in quanto i fanciulli nati secondo questa tradizione, essendo di rango e di pari diritti, finivano spesso in lotta per il regno paterno, generando a loro volta altri figli, creando caos e disordini.

Emblematico fu il caso di Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia. Guglielmo era figlio di Riccardo I e di una concubina di nome Arlette.
Questa donna, figlia del ciambellano di corte, celebrata per la bellezza principesca da cronisti e scrittori come Benedetto di Sainte-Maure o il poeta normanno Robert Wace, fu una delle tante dame di corte insidiate da Riccardo.
Il sovrano non si sposò mai, riuscendo prima della sua morte a nominare Guglielmo suo erede anche se in via non ufficiale. Per questo, Guglielmo il Conquistatore dovette combattere contro oppositori e fratellastri, figli delle altre concubine del padre.
Quando Riccardo I morì a Nicea il 2 luglio 1035, Arlette rimase sola con due figli a carico: Guglielmo e la sorella Adelaide. Non si sa se fu scelta o fu donata da Riccardo I al nobile Herloin come sposa legittima. Certo è che questo nobile, proprietario di una piccola signoria vicino alla foce della Senna, riscattò la condizione sociale della donna generando con lei altri due figli, che divennero prodi cavalieri.
Testo consigliato:
Il potere delle donne nel Medioevo, G. Duby, Laterza, 2008.